
«Succede che nel 2017 un giornalista del New Yorker arriva a Palermo per occuparsi del caso Mered, il rifugiato scambiato per un trafficante. Parla con decine di persone, vola in Svezia ad incontrare la moglie del trafficante e infine riesce addirittura ad intervistare il vero Medhanie Yehdego Mered, che se la spassa in Uganda mentre in Sicilia un innocente rischia 15 anni di carcere al suo posto. Quando il New Yorker pubblica quell’articolo, di quasi 10 pagine, intitolato “The Wrong man”, in cui il reporter accusa le autorità italiane di aver catturato la persona sbagliata, in tanti storcono il naso a Palermo. E qualcuno arriverà ad insinuare che sono solo balle. Quel giornalista si chiama Ben Taub e ieri (4 maggio) ha vinto il Premio Pulitzer».
Così il giornalista Lorenzo Tondo ha annunciato sul suo profilo Facebook la vittoria del premio Pulitzer da parte di Ben Taub del New Yorker, per il suo articolo su un uomo rapito, torturato e privato della sua libertà nella prigione di Guantanamo (“Guantanamo’s Darkest Secret“).
Tondo, corrispondente del Guardian da Palermo (da cui copre l’intera area mediterranea), ha dedicato proprio al caso di Medhanie Tesfamariam Berhe un lungo lavoro di inchiesta culminato nel libro “Il Generale”. Di seguito vi propongo un’intervista realizzata a Como alla fine di febbraio.

Come la più internazionale delle operazioni di polizia contro i trafficanti di esseri umani possa trasformarsi nel più internazionale degli imbarazzi. Sta tutta qui l’odissea di un giovane pastore eritreo di 30 anni, Medhanie Tesfamariam Berhe, rimasto in carcere in Italia per oltre tre anni con l’accusa di essere una delle menti dietro al business miliardario delle migrazioni irregolari.
La sua colpa? Avere un nome simile a quello di Medhanie Yedhedgo Mered, detto il Generale, ritenuto dalle forze di polizia di mezza Europa, uno dei più importanti trafficanti di essere umani. Un drammatico errore giudiziario, celato dietro al più classico degli scambi di persona, su cui fa luce il giornalista sicialiano Lorenzo Tondo, nel libro-inchiesta “Il Generale” edito da La Nave di Teseo. Abbiamo avuto la fortuna di incontrarlo a Como a margine della presentazione del suo lavoro alla libreria Ubik.
Lorenzo Tondo, com’è si è insuato in te il dubbio che in carcere fosse finito un innocente?
«Partiamo dall’inizio: vengo a sapere dell’arresto di quello che doveva essere il più grande trafficante di uomini al mondo, da una fonte all’interno della Procura di Palermo, ai primi di maggio del 2016, circa due settimane prima che mettessero a segno l’operazione (24 maggio). La mia prima sensazione è che ci fosse una gran voglia di far sapere, soprattutto alla stampa estera, che a Palermo si lavora bene e che questo effettivamente poteva essere uno dei più grandi colpi nella storia della crisi dei migranti: il primo trafficante di uomini arrestato da un’autorità europea sul suolo africano. Si era parlato di una sorta di Al Capone del deserto».

Poi cosa succede?
«Il giorno dell’arresto avevamo già il pezzo pronto, le interviste fatte, tutto preparato in anticipo, ma ci accorgiamo che qualcosa non va. Quando Repubblica manda in onda le immagini di questo ragazzo che scende le scale dell’aereo a Fiumicino con lo sguardo spento, i capelli arruffati, ci rendiamo conto che non assomigliava affatto alle immagini del trafficante che erano state diffuse dalla Procura fin dal 2015. Dubbi che hanno presto trovato le prime conferme».
Da parte di chi?
«Da parte degli stessi eritrei che avevano avuto a che fare con il vero Medhanie Yedhedgo Mered. Quando sul sito del Guardian esce il pezzo sull’arresto iniziamo a ricevere commenti e mail che ci mettono in guardia da un possibile errore di persona. Ci contattano anche alcuni familiari di Medhanie Tesfamariam Berhe, il giovane arrestato, che ci inviano la copia dei suoi documenti che confermano come il nome sia effettivamente un altro rispetto a quello del noto trafficante. Sono solo le prime di molte prove ma, nonostante tutto questo, le autorità sembravano non avere dubbi».

Ci aiuti a capire chi era il “Generale” e perché fosse così importante il suo arresto?
«La procura di Palermo indagava su di lui in seguito alla tragedia dell’ottobre 2013, che è costata la vita a 368 eritrei al largo di Lampedusa, ritenendolo uno dei responsabili, ma ho sempre pensato che non fosse il boss dipinto dalle autorità. Forse più un sergente, un caporale, diciamo una pedina di un traffico molto più ampio che si estende dall’Etiopia all’Eritrea, dal Niger alla Libia, una rete fatta di nodi e non tanto una struttura gerarchica. Premetto che io non penso che il generale fosse quello che era stato descritto dalla procura. Certamente è un uomo spietato, senza scrupoli e spavaldo, che, mentre l’altro Medhanie era in carcere, concedeva interviste al New York Times e al Wall Strett Journal. Un uomo spietato che si è arricchito con il traffico di eritrei nel Sinai e verso la Libia».
Hai mai avuto la sensazione che lo scambio di persona fosse chiaro a tutti, ma bisognasse in qualche modo salvare la faccia degli inquirenti e l’onorabilità dell’Italia?
«La mia opinione personale, ma di questo non ho le prove, è che serviva dimostrare che un’indagine durata cinque anni e costata milioni di euro non potesse finire con l’arresto della persona sbagliata, che quell’uomo fosse comunque un trafficante di uomini. Magari non quel Mered – tanto è vero che ad un certo punto lo ammetterà la stessa Procura che cambierà impianto accusatorio – ma comunque un trafficante. Tanto è vero che quando il 12 luglio 2019 Medhanie Tesfamariam Berhe viene finalmente assolto per acclarato errore di persona dalla Corte di Assise dal reato principale – traffico di esseri umani – viene condannato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a 5 anni di carcere. Pena che non sconterà avendo già trascorso tre anni in carcere e, dunque, viene scarcerato…»
Questo dimostrerebbe che in carcere non c’era dunque un innocente come diceva la stampa?
«Medhanie Tesfamariam Berhe è stato condannato per aver inviato dei soldi ad un uomo vicino ai trafficanti così da permettere la partenza di suo cugino dalla Libia. È una pratica davvero comune: a questo punto dovremmo arrestare tutti gli amici e i parenti dei migranti che arrivano in Italia. Ma vi è anche un altro paradosso: oggi Medhanie vive a Palermo protetto dallo stato perché ha ottenuto lo Protezione internazionale come rifugiato».
Come sta?
«Male, si è rinchiuso in un silenzio pauroso, soffre di attacchi di panico e di quello che viene definito disagio post-traumatico. La prima cosa che mi disse quando lo incontrai è stata: “Io non sono stato arrestato, io sono stato sequestrato. Ero seduto in un bar di Karthoum e mi sono ritrovato in Italia. Mi hanno preso, incappucciato e sbattuto per tre settimane in carcere. E da qui deportato”.
In più occasioni hai detto che il caso Mered dimostrerebbe il fallimento della strategia di contrasto al traffico di esseri umani da parte delle autorità. Cosa intendi?
«Si è deciso di applicare ai trafficanti di esseri umani molti dei metodi utilizzati per il contrasto a Cosa Nostra, a partire dalle intercettazioni. Migliaia di intercettazioni in tutto il nord Africa. Questo senza tenere conto della complessità delle lingue parlate dalle persone che si vorrebbe intercettare. Si è cercata una cupola da combattere, non accorgendosi che si è di fronte ad una rete fluida e non ad una gerarchia. Da qui nascono gli errori».
Quale cambio di strategia sarebbe necessario?
«I trafficanti si combattono togliendo loro i potenziali clienti e per farlo servono da una parte vie legali di ingresso in Europa e dall’altro la stabilizzazione di Paesi come la Libia che sono al centro della crisi migratoria. Ma di questo, anche alla recente conferenza di Malta non si è parlato. Ci si è concentrati, ancora una volta, solo sulla redistribuzione».
Michele Luppi