«Il peso politico, mediatico e simbolico dei flussi migratori dall’Africa sugli equilibri del vecchio continente è assolutamente sproporzionato rispetto alla dimensione dell’immigrazione africana in Europa. Ciò si deve a molteplici fattori, tra cui una iper-visibilizzazione del fenomeno e un utilizzo strumentale della presenza di migranti africani da parte di diversi attori politici, al fine di perseguire cinici obiettivi elettorali e favorire le lobby dell’industria della sicurezza».
Lo scrive Lorenzo Gabrielli (GRITIM e Centre Emile Durkheim) nel nuovo dossier realizzato dall’Ispi (Istituto di Studi per la Politica Internazionale) dal titolo “Non solo verso l’Europa: le migrazioni interne all’Africa” pubblicato martedì 16 luglio.
Dei 27 milioni di emigrati che, al 2017, originavano dall’Africa subsahariana, solo una minoranza di 8 milioni di persone, lasciata la propria terra, si è stabilita nei decenni in Europa, Nord America, Medio Oriente o in un’altra regione del globo[1].
Gran parte dei migranti subsahariani – 19 milioni di persone complessivamente – hanno sì attraversato confini, ma spesso solo per spostarsi in uno stato limitrofo, o comunque fermandosi in Africa.
Il dossier dell’Ispi – consultabile qui – e curato da Giovanni Carbone (Head, ISPI Africa Programme) e Camillo Casola (Associate Research Fellow, ISPI Africa Programme).
Lorenzo Gabrielli si occupa in questo articolo di “esternazionalizzazione delle frontiere europee”
La delocalizzazione europea del controllo dei movimenti umani si è intensificata a partire dalla seconda metà degli anni 2000 in Africa del Nord, a causa dell’azione spagnola in Africa occidentale, accompagnata poi da quella di altri paesi Europei, tra cui l’Italia, e infine estesa alla zona orientale del Sahel, attraverso l’intervento dell’UE dopo il summit di La Valletta del 2015 e la creazione del Fondo fiduciario di emergenza per l’Africa. Appare decisamente paradossale come lo strumento scelto per lottare contro le cause profonde, e quindi strutturali, delle migrazioni africane – EU Trust Fund – sia in realtà uno strumento previsto dall’UE per fronteggiare le emergenze. Questo ci dice molto sull’approccio europeo, sempre reattivo e costruito sulla base di presunte “crisi migratorie” legate agli arrivi di migranti e irregolari alle frontiere marittime o terrestri; crisi che in realtà si ripetono ciclicamente dagli anni novanta.
Molti europei temono che gli effetti del cambiamento climatico possano dar vita a una nuova ondata di rifugiati africani decisi a raggiungere le coste dell’Europa. Tuttavia, secondo numerosi studi, i fenomeni di mobilità umana correlati alle dinamiche di cambiamento climatico in Africa si sviluppano principalmente in seno agli Stati africani o tra Stati confinanti.
Sara De Simone dell’Università degli Studi di Trento racconta de “Lo strano caso dell’Uganda, dove le migrazioni sono una risorsa”
Anche se nell’immaginario pubblico internazionale l’Uganda evoca ancora scenari di guerra legati ai dittatori del passato, il paese rappresenta oggi un porto (relativamente) sicuro in una regione martoriata dalla guerra. Dal 1986 è governata dal Presidente Yoweri Museveni, che è riuscito a mantenere, talvolta attraverso operazioni anti-insurrezionali piuttosto violente, una sostanziale stabilità, cosa che gli ha permesso di vendere alla comunità internazionale l’immagine dell’Uganda come di un partner affidabile.
La sua stabilità spiega in parte come mai così tante persone in fuga scelgano l’Uganda come destinazione. Esiste, tuttavia, un’altra ragione, almeno altrettanto importante: la politica di accoglienza dei rifugiati del paese è tra le più aperte al mondo, e gode di fama internazionale. I rifugiati in Uganda hanno il diritto di accedere a servizi essenziali, come istruzione e servizi sanitari, su base paritaria con la popolazione locale, di lavorare e intraprendere attività imprenditoriali e di spostarsi sul territorio nazionale[1].