Forse Alfano avrebbe fatto meglio a chiedere un parere a Billo prima di promettere al governo del Niger 50 milioni di euro per potenziare il controllo delle frontiere esterne del Paese africano. Billo, arrivato in Italia dal Senegal dopo aver attraversato il deserto e il Mediterraneo, gli avrebbe detto che quei soldi saranno spesi inutilmente. Il perché è semplice:
«Quanto guadagnano le guardie nigerine che pattugliano Agadez, una delle zone più povere, di uno dei Paesi più poveri dell’Africa?” Racconta il giovane con l’aria di chi non parla per sentito dire, ma di chi ha ancora impressi nella memoria e sulla pelle i segni di quel viaggio.
“Poco, pochissimo… – aggiunge – e questo significa che le guardie continueranno a chiedere soldi ai migranti e chi potrà pagare passerà mentre chi non potrà pagare verrà picchiato, esattamente come avviene oggi, e respinto indietro. Magari chiederanno semplicemente più soldi per farsi convincere…».
Agadez è una città del nord del Niger, l’ultima prima dell’inizio del deserto. È qui che i migranti sostano in attesa di essere caricati sui camion e sui pick-up che poi puntano verso la Libia. Dormono in ghetti e capannoni gestiti dagli stessi trafficanti che controllano questo lucroso traffico. Perché in quella che una volta era la via del Sale, percorsa dalle carovane cariche di merci, oggi si commerciano gli uomini.
I cinque mila chilometri di confine tra Libia, Niger e Algeria sono una terra difficile da controllare dove, più di un secolo fa, le potenze coloniali tracciarono una linea sulla carta che chiamarono “confine”. Ma il loro controllo è in mano a tribù che si muovono, loro sì senza difficoltà, tra quelle tracce e quelle dune, gestendo commerci, traffici e il controllo del territorio.
Lo sa bene il ministro degli interni Minniti che, all’inizio di aprile, ha convocato a Roma, insieme ad un rappresentante del governo libico di accordo nazionale (quello con sede a Tripoli), una sessantina di capi di clan, compresi i capi della comunità Tebu, quelli della tribù Suleiman e i Tuareg nel tentativo di raggiungere un accordo che possa stabilizzare la regione, precipitata nel caos con la caduta di Gheddafi. (Accordo che, per la verità, appare già saltato).
Una pace non disinteressata: senza controllo del territorio, addio controllo delle frontiere e senza controllo delle frontiere addio ai soldi spesi dall’Italia (e dall’Europa) per quel processo di esternazionalizzazione dei confini portato a vanti da tempo.
“Sarà operativa – ha detto Minniti al termine dell’incontro con i capi tribù – una guardia di frontiera libica per sorvegliare i confini a sud della Libia su 5mila chilometri di confine. Mentre a Nord contro gli scafisti sarà operativa la guardia costiera libica, addestrata dalle nostre forze, che dal 30 aprile sarà dotata delle 10 motovedette che stiamo loro finendo di ristrutturare”.
Mi piacerebbe che Minniti ed Alfano potessero vedere gli occhi di Billo mentre racconta quello che è stato per lui la Libia. Un buco nero dove ai migranti tutto può accadere: uccisioni, torture, sevizie, sparizioni.
“Un giorno – continua Billo (rimasto in Libia per quasi due anni) – ero in una città nel sud e aspettavo l’uomo che mi doveva portare in un cantiere dove lavoravo come uno schiavo. Ero con altri migranti a bordo della strada quando è passata una macchina e un ragazzino con un kalashnikof si è messo a sparare. Senza una ragione. Ha ucciso cinque persone. Ma questo in Libia è normale. La vita di un negro non ha valore”.
Punto.