I nuovi accordi tra Ue e Africa per gestire le migrazioni.
Cinque cose da sapere

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Nei giorni scorsi – precisamente il 7 giugno 2016 – la Commissione europea ha presentato a Strasburgo il nuovo schema di accordi bilaterali (i cosiddetti compacts) che verranno sottoscritti con sette Paesi di Africa (Nigeria, Mali, Niger, Senegal ed Etiopia) e Medio Oriente (Giordania e Libano) nel tentativo di coinvolgerli nella gestione dei flussi migratori. Ho provato a leggere i vari documenti ufficiali di quella che è stata ribattezzata una “New Migration Partnership Framework” e questo è quello che ho capito riguardo all’Africa.

Punto 1: Questo accordo è stato associato a quello siglato nel marzo scorso tra l’Unione europea e la Turchia. Diciamo che ci sono similitudini nella logica di fondo – coinvolgere un Paese terzo nel controllo dei flussi migratori -, ma anche differenze: l’accordo con la Turchia (oltre a prevedere molti più soldi, 6 miliardi per un solo Paese) è anche più articolato politicamente prevedendo uno schema “automatico” per i rimpatri verso la Turchia e per i reinsediamenti (“resettlements”) dalla Turchia verso l’Europa dei cittadini siriani. Ma non solo, l’accordo prevede un’apertura da parte europea sui visti dei cittadini turchi e un’accelerazione (probabilmente solo momentanea) delle procedure di adesione. Tutte cose non previste nel caso dei Paesi africani.

photo_trust_fund_1_0Punto 2: L’EU Emergency Trust Fund for Africa, il fondo fiduciario per l’Africa lanciato al Summit de La Valletta, nel novembre 2015, diventa sempre più centrale nella gestione degli aiuti verso l’Africa. Sarà questo il serbatoio da cui si attingerà per finanziare i nuovi progetti (tutti consultabili dal sito).  Al capitale già in dotazione –  1,88 miliardi di euro (di cui 1,8 sono fondi europei) – la Commissione ha deciso di aggiungere un ulteriore contributo da 500 milioni di euro, chiedendo ai 28 stati membri di raddoppiarli, portando così ad un miliardo l’incremento complessivo. Il problema è che gli Stati membri non sembrano molto collaborativi: a La Valletta si era preventivato un loro contributo da 1,8 miliardi (così da raddoppiare i fondi della Commissione) ma di questa prima tranche hanno versato solo 88 milioni (ottantotto!) ed è difficile immaginare che aggiungano questi 500. E, per la serie nulla si crea ma tutto si trasforma, se la Commissione continuerà a dirottare risorse verso il fondo fiduciario vorrà dire che da qualche parte ci saranno risorse in meno (fondi per la cooperazione, aiuti ecc.).

Resta di positivo la volontà di ridurre la frammentarietà degli strumenti finanziari che fanno capo all’Ue, così come la volontà di stimolare gli investimenti in Africa: molto dipenderà dalla loro ripartizione tra progetti di sviluppo (con la creazione di posti di lavoro) da una parte e il rafforzamento dei controlli dall’altra.

Punto 3: Questi nuovi “compacts” introducono la logica della “condizionalità negativa” nella gestione dei contributi. Tradotto in parole semplici: se fai quello che dico io ti do i soldi, altrimenti taglio i contributi. Una logica che rischia di tramutarsi in una forma di “ricatto” nei confronti dei governi africani. A fronte di generosi aiuti economici l’Europa chiede l’accettazione dei rimpatri, la lotta ai trafficanti e maggiori controlli, arrivando ad auspicare l’introduzione (già in Africa) di controlli biometrici e foto-segnalazioni; quello che oggi viene fatto negli hotspot di Italia e Grecia. Qualcuno da tempo parla di “esternalizzazione delle frontiere”, concetto che non mi piace, ma rende l’idea. Una sperimentazione in questo senso potrebbe partire a breve in Niger attraverso la missione Eucap Sahel Niger, già attiva a Niamey ed Agadez.

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Punto 4: La Commissione nella bozza di proposta parla di “partnership”, ma lo squilibrio all’interno di questi nuovi “compacts” appare evidente. L’Europa sembra aver messo da parte – forse solo momentaneamente – quel sistema di negoziati e accordi multilaterali nati negli ultimi anni per avviare un dialogo con i Paesi africani, anche in materia di migrazioni: penso ai processi di Rabat e Karthoum, così come ai Summit di La Valletta o al dialogo costante con l’Unione africana. Spinta dalla necessità di agire in fretta e per evitare il coinvolgimento di personaggi scomodi (come i “chiacchierati” presidenti di Eritrea, Gambia e Sudan), l’Unione ha deciso di fare da sola, imponendo di fatto la sua soluzione alla controparte. E lo chiamano “dialogo”.

Punto 5: Il nodo di fondo resta la volontà degli stati membri. Qualsiasi iniziativa della Commissione – compreso l’annunciato piano di investimenti per l’Africa da 31 miliardi entro il 2020 (sarà discusso in autunno dal Consiglio europeo) –  potrà avere efficacia solo se i governi parteciperanno con più entusiamo, ma guardando agli scarsi finanziamenti per il fondo fiduciario e, soprattutto, al fallimento dei sistema di “ricollocamenti” interno alla stessa unione (1500 persone ricollocate da Grecia e Italia a metà maggio 2016 a fronte dei 20 mila previsti – con l’ìdea di arrivare a 160 mila entro settembre 2017), le speranze sono decisamente scarse.

Se volete saperne di più vi segnalo l’approfondimento che sarà pubblicato sul numero di luglio-agosto della rivista Nigrizia (www.nigrizia.it).

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