«Come può l’Europa lasciarci qui?» Sono tornato da Idomeni da una settimana e questa domanda ancora mi tormenta. Alì non aveva la faccia arrabbiata mentre pronunciava queste parole; forse i suoi occhi, nascosti dalla visiera sgualcita di un cappello da baseball, tradivano rassegnazione, stanchezza, ma non certo risentimento.
“Per favore – ci ha confidato in un inglese pulito – raccontate ai vostri amici, alle vostre famiglie, quello che sta succedendo a tutti noi: da un mese viviamo qui senza una doccia, servizi igienici, nulla.Fatelo sapere al Papa che tanto si sta battendo per noi. Piuttosto che vivere così è meglio tornare e morire sotto una bomba”.
Alì, 68 anni, siriano di Damasco, non poteva sapere che Papa Francesco in quelle stesse ore avrebbe annunciato la sua visita all’isola di Lesbo, quasi a rispondere al suo invito. L’uomo ci aveva accolto attorno ai resti del fuoco acceso nella notte per scaldarsi, a pochi metri dalla tenda in cui vive a poche centinaia di metri dal confine greco-macedone. Come lui altre undicimila persone che, da oltre un mese, sono bloccate in questo angolo d’Europa.
«Come può l’Europa lasciarli lì?» Questa non è solo la domanda che si pone Alì, ma è la domanda di qualsiasi uomo sia passato a calcare il fango e la polvere di Idomeni.
Perché in discussione in questi giorni in Grecia non è solo il futuro dei 53 mila richiedenti asilo che sono rimasti “bloccati” dopo la chiusura delle frontiere o di quanti verranno rimandati in Turchia, ma l’immagine stessa dell’Europa agli occhi del mondo e dei suoi stessi figli.
Chi può davvero pensare che 53 mila persone siano un problema per un continente di 500 milioni di abitanti? E ancor meno lo sono i duemila (2000!) migranti accolti nei campi di Macedonia e Serbia. Davvero per loro non c’è alternativa ad una snervante e infinita attesa?
Perché è questo quello a cui è condannato non solo Alì, ma anche il giovane Hassan, scappato da Aleppo, e Rym con i suoi figli e un marito già in Germania. Aspettano un piano di ricollocamenti che non si sa dove li porterà (a loro non sarà consentito di decidere) e soprattutto quando. Poi ci sono quelli che non rientrano nelle quote: afghani, pakistani, somali, marocchini. Per loro arriverà il rimpatrio o i rischi di un viaggio illegale attraverso i monti.
«Cosa si dice in Europa di quanto sta accadendo qui?», chiedeva ancora Alì. «Possibile che l’Europa, conosciuta come la patria dei diritti accetti tutto questo?» Ho preferito non rispondere perché avrei dovuto dire che a Berlino come a Milano, a Parigi come Madrid importa poco di quanto sta avvenendo dentro i confini dell’Unione (e questo non vale solo per i deputati ma anche per tanti cittadini); che nonostante alcuni politici si nascondano da mesi dietro la frase “migranti economici no, ma profughi sì”, l’accordo non si riesce a trovare nemmeno per chi scappa dall’Isis.
Qualcuno potrà obiettare che i siriani (qui i dati aggiornati) in Turchia sono 2 milioni, 1 milione sono in Libano e l’elenco potrebbe continuare con altre nazionalità e altri Paesi. Troppi. Forse è vero, ma se la situazione è questa la responsabilità è anche (attenzione, non ho detto “solo”) di un’Europa che preferisce alzare barriere e guardare dall’altra parte, dimenticando che si è arrivati a questo punto proprio perché non si è voluto agire prima: con azioni diplomatiche, con corridoi umanitari, con la cooperazione. Ma, soprattutto, parlando con una voce sola.
Perché la verità più scomoda di tutta questa crisi è che l’Europa a cui si appellano i migranti non esiste o, forse, non è mai esistita.
Michele Luppi