Eu-Africa Summit:
Se la politica europea
manca di visione

Valletta Summit inaugurazione

“La Valletta non può essere una nuova Tripoli”. Lo ha detto ieri la presidente della Commissione dell’Unione africana, Dlamini Zuma, nel suo intervento all’apertura del Summit de La Valletta sulle migrazioni, con un riferimento non è alla crisi post-Gheddafi, ma ad un analogo incontro del 2006. Allora il tema delle migrazioni era solo uno dei tanti posti sul tavolo dai leader di Africa ed Europa nel tentativo di rilanciare la partnership tra i due continenti. Ne uscì una dichiarazione congiunta sulle migrazioni in cui, per la prima volta, si cercava di promuovere un dialogo comune per affrontare la questione a partire dalla sue cause strutturali.

Sono passati nove anni, ha ricordato Dlamini-Zuma, e la situazione è sotto gli occhi di tutti. La questione migratoria è esplosa in tutta la sua forza e drammaticità, con il record di arrivi segnato nel mese di ottobre 2015 (218 mila migranti arrivati in un solo mese da Africa e Medio Oriente) e un numero crescente di morti nel Mediterraneo. Da qui il messaggio lanciato ai 45 capi di stato e di governo provenienti dai 28 Paesi dell’Ue e da 35 Paesi africani che, parafrasando, suona più o meno così: non possiamo permetterci un altro fallimento.

Vallett Summit foto di gruppo

Purtroppo la sensazione, ascoltando i primi discorsi, e leggendo le bozze dell’accordo conclusivo che sono circolate in questi giorni, non sembra raccogliere questo invito.

Nonostante le promesse di maggiori aiuti e di aperture di canali per favorire la mobilità, promessi dal presidente del Consiglio UE, Donald Tusk, l’Europa sembra determinata a perseguire nella sua logica di chiusura dei confini. Una logica definita “controproducente”, dalla leader dell’Ua. “L’Africa – ha sottolineato – chiede investimenti, partner commerciali, occasioni di sviluppo per dare un’opportunità ad una popolazione giovane che continuerà a crescere almeno fino alla fine del secolo. Creare opportunità per i giovani africani non è solo nell’interesse dell’Africa ma del mondo”.

Un invito che l’Europa sembra non voler accogliere troppo preoccupata dalla necessità di salvaguardare la tenuta stessa del sistema Shengen che sembra incrinarsi di fronte all’incapacità (o forse sarebbe meglio dire mancanza di volontà) di gestire i flussi.

Ed è così che l’Europa a Malta preme sopratutto sul tema dei rimpatri cercando accordi con i singoli Paesi africani. Proprio ieri ne è stato firmato uno con l’Etiopia che segue quelli già approvati con Nigeria, Marocco, Tunisia e Capo Verde. Il problema di fondo resta però sempre lo stesso: chi e come deciderà chi ha diritto di essere accolto in Europa e chi no? Qual è il limite tra rifugiato e “migrante economico” (definizione bruttissima)? 

Sono questi i dubbi che sta avanzando la parte africana al tavolo delle trattative, riaffermando la clausola di volontarità e respingendo l’idea dei rimpatri coatti così come la proposta di costituzione di centri di detenzione nei Paesi africani.

Difficilmente le risorse messe a disposizione dall’Ue attraverso l’Emergency Trust Fund for Africa (1,8 miliardi di euro), riusciranno a cambiare le cose.

Il Summit è ancora tutto da giocare e quella di oggi sarà la giornata decisiva, ma se queste sono le premesse il rischio è che Summit di Malta si chiuderà senza quel cambio di marcia necessario ad incidere sulla realtà. E’ stato così a Tripoli (2006) a Bruxelles (2014) e, oggi, a La Valletta. Perché per affrontare la questione migratoria ci vogliono, in entrambi i continenti, politici capaci di guardare non al prossimo anno, ma alla prossima generazione. E, purtroppo, di questi leader non se ne vedono molti all’orizzonte. Nemmeno da qui, dal cuore del Mediterraneo.

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