«I problemi nel nostro villaggio sono iniziati quando hanno cominciato ad estrarre il petrolio. Il problema principale è l’acqua: da quando estraggono il petrolio i torrenti qui intorno sono avvelenati. ENI ha costruito per rimediare al danno due punti di raccolta per l’acqua potabile, ma non è la stessa cosa…Nei fiumi noi pescavamo, lavavamo i vestiti, facevamo il bagno; per centinaia di anni i corsi d’acqua nella foresta ci hanno sfamato e dato l’acqua per sopravvivere, ma tutto questo oggi non è più possibile, a causa dell’inquinamento. Soprattutto nella stagione delle piogge l’acqua porta a valle tutti i detriti dell’estrazione del petrolio, avvelenando i nostri fiumi».
A denunciare le conseguenze dello sfruttamento petrolifero nell’area del campo di Mboundi (nel quale Eni ha un interesse all’83%) in Repubblica del Congo è il capovillaggio di Ndongo. Una testimonianza raccolta da Caritas Italiana nel dossier “Ecologia Integrale” pubblicato in occasione della Giornata per la Salvaguardia del Creato del 1° settembre. La Repubblica del Congo è attualmente il quarto produttore di petrolio dell’Africa sub-sahariana, ma per gli analisti potrebbe superare la Guinea Equatoriale al terzo posto entro il 2017. Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale la previsione di produzione per il 2015 è di 88 milioni di barili: dalla vendita (in gran parte destinata alle esportazioni) lo stato ricaverà 39,6% del budget nazionale. Una cifra in forte calo – a causa di una lieve flessione nella produzione (-3,4%) e del crollo dei prezzi – rispetto al 64,7% del 2014 e all’82,1% del 2013. Molti dei giacimenti si trovano off-shore.
Tra le principali compagnie straniere presenti nel Paese ci sono la francese Total, l’italiana ENI (primo operatore petrolifero in Africa), le americane Exxon Mobil e Chevron Taxaco e compagnie cinesi che si sono da poco affacciate sul mercato. Per quanto riguarda l’operatività di Eni nel Paese, gli sforzi si concentrano sull’estrazione di petrolio e gas naturale con una produzione, nel 2014, di 110 mila barili di olio equivalente al giorno. Negli scorsi anni l’azienda italiana ha contributo alla realizzazione e al potenziamento di due centrali elettriche, alimentate con il gas associato del campo di Mboundi e dei campi off-shore, che coprono il 60% del fabbisogno energetico del paese. Eni ha anche realizzato la rete nazionale ad alta tensione tra Pointe Noire e Brazaville per una distanza di 550 chilomentri.
“La nostra posizione non è di contrarietà assoluta verso le compagnie estrattive poiché ci rendiamo conto che senza il loro contributo economico il nostro paese sarebbe morto” dichiara Brice Makosso, direttore della Commissione Giustizia e Pace di Pointe-Noire, uno dei principali centri petroliferi del Paese. “Il problema – continua – riguarda piuttosto il rispetto che queste compagnie devono avere per le norme fondamentali della tutela ambientale, e la certezza che i lauti guadagni che loro ottengono dell’estrazione del petrolio vadano anche a beneficio delle popolazione congolese. Purtroppo, però, abbiamo constatato negli ultimi anni un danno all’ecosistema congolese che definirei catastrofico e una profonda collusione tra le compagnie petrolifere straniere e il sistema corrotto del governo, per cui alla fine alla popolazione locale non arriva nulla, nemmeno le briciole dei loro miliardi”.
In particolare il dossier Caritas denuncia l’avvelenamento delle falde acquifere, l’acidificazione dei terreni, l’inquinamento dell’aria. “La commissione Giustizia e Pace di Pointe-Noire – si legge nel dossier (pag. 11) – ha commissionato nel 2009 uno studio scientifico su campioni di suolo prelevati dalla zona petrolifera di Mboukou, sede di estrazioni da parte della compagnia ENI Congo. I risultati delle analisi hanno rilevato una percentuale di acidità del suolo di gran lunga superiore alla media normale, con la conseguenza di una totale improduttività del terreno analizzato”.
Accuse seccamente smentite da Eni – contattata da Africaeuropa – che ha bollato come falsità l’accusa di essere responsabile della contaminazione dei terreni e ha rivendicato il suo impegno per uno “sviluppo sostenibile” in Congo.
Dall’azienda rivendicano il rispetto di tutti gli standard internazionali per la progettazioni di pozzi e linea per evitare l’interferenza con le matrici ambientali. In questo senso vengono citati alcuni studi condotti dal centro di ricerca agronomico di Loudima e dall’Istituto dello sviluppo rurale dell’università Marien Nguabi di Brazzaville secondo cui la scarsa produttività dei terreni andrebbe ricercata nella “mosca della manioca”, una patologia ampiamente diffusa nell’Africa Centrale e non nell’acidità dei terreni. Lo dimostrerebbe – continuano da Eni – il fatto che, utilizzando colture resistenti alla mosca, la produttività si innalza sopra la media regionale. Nessuna smentita, invece, sul dato relativo alla maggior acidità dei terreni.
Secondo i dati raccolti dalla Caritas di Pointe-Noire nel rapporto 2014 l’inquinamento avrebbe conseguenze sulla salute delle persone con un aumento patologie nelle aree dove sono situati i siti per l’estrazione del petrolio. “Molto diffusi – si legge nel rapporto – sono i casi di bambini che nascono con malformazioni congenite, e richiedono interventi di fisioterapia, kinesiterapia e talvolta di supporti come protesi artificiali e sostegni”.
Prosegue il capo villaggio di Ndongo: “Quando è iniziata l’estrazione del petrolio ci avevano detto che avremmo avuto grandi benefici, progresso e sviluppo per tutti i nostri villaggi. Ci dicevano che ENI è un’importante società nel mondo che avrebbe portato grandi aiuti al nostro paese. Invece ciò che vediamo oggi è morte tutto intorno a noi: la nostra terra, i nostri fiumi, i nostri alberi sono avvelenati. Ed ENI ci lascia solo delle briciole, come i due pozzi d’acqua che hanno messo qui vicino…Ma non dovevano portarci scuole, lavoro, servizi sanitari?”
In risposta a questa accusa da Eni snocciolano i dati delle attività svolte negli ultimi anni proprio nell’area di Mboundi: in collaborazione con le autorità locali e i diversi ministeri di riferimento, sono stati realizzati 11 centri sanitari, solo nel 2014, 17.871 persone sono state vaccinate, sono state costruite 11 scuole, realizzati 21 pozzi per l’acqua.
Dall’azienda spiegano inoltre come le attività estrattive abbiano permesso la creazione di 1500 posti di lavoro assegnati ad abitanti dei villaggi circostanti e di come si stia lavorando per la riduzione del flaring (la pratica di bruciare il gas in eccesso derivante dalla produzione di petrolio). Eni dichiara di aver ridotto le emissioni del 25% negli ultimi 5 anni e di aver azzerato quelle del centro di Mboundi. L’obiettivo di arrivare entro il 2030 al traguardo – fissato dalla Banca Mondiale – del “zero gas flaring” è però ancora lontano.
A preoccupare Brice Mackosso è ora il progetto per lo sfruttamento delle sabbie bituminose a Tchikatanga e Makola, due aree che insieme coprono 1.790 km quadrati. Si tratta del primo progetto di questo genere in Africa. “Ci dicono – si legge nel dossier – che non ci saranno processi di deforestazione, perché le loro operazioni riguarderanno un territorio di savana, con pochi alberi, ma chi conosce il Congo sa che tutta la nostra superficie è ricoperta dalla foresta pluviale, per cui come possono pensare di non tagliare alberi? Siamo persino andati a Milano, alla sede centrale dell’ENI, per insistere su queste informazioni fondamentali, ma ci è stato risposto che non siamo autorizzati ad essere informati”.
Da Eni fanno sapere che il progetto – ancora indicato tra le priorità dell’attività in Congo, nella presentazione realizzata per EXPO – è in realtà sospeso da tempo. Vi terremo aggiornati.