I trafficanti di essere umani non si combattono con le bombe ma con un sistema comune di leggi e di controlli. Per Andrea Di Nicola e Gianpaolo Musumeci, autori del libro “Confessione di un trafficante di uomini” (edito da Chiarelettere), la strada da percorrere per combattere il business dell’immigrazione verso l’Europa passa dall’armonizzazione delle normative comunitarie.
A pochi giorni dalla decisione del Consiglio dell’Unione europea che ha aperto la strada ad una missione militare europea nel Mediterraneo – per cui si aspetta il via libera dell’ONU – abbiamo chiesto a Di Nicola, professore di criminologia all’Università di Trento, di aiutarci a comprendere la realtà di queste organizzazioni.
Professore, crede sia utile un intervento militare per bloccare i trafficanti?
“Quelle di questi giorni mi sembrano proposte utili da vendere all’opinione pubblica, ma credo vi sia una certa miopia da parte europea. Tutti gli occhi sono puntati sulla Libia, ma la questione va ben al di là dei confini libici perché anche se interrompessimo quel flusso i trafficanti troverebbero altre strade”.
Cosa pensa dei possibili “bombardamenti ai barconi”?
“È chiaro che sarebbe importante riuscire a complicare la vita ai trafficanti togliendogli le barche, ma non è una cosa semplice da fare. Se sono a terra come si può distinguere la nave di un trafficante da quella di un pescatore? E come si possono colpire i barconi quando sono in mare carichi di migranti? Bisognerebbe colpirli a terra ma, in quel caso, serve un accordo con la Libia e questo apre un capitolo molto complesso”.
Nell’incontro di Bruxelles i ministri dei Paesi Ue hanno proposto il potenziamento delle relazioni con Mali e Niger, ma anche in questo caso la sensazione è di una visione parziale?
“Quelle dei trafficanti sono reti fluide dove ci sono diverse organizzazioni che collaborano efficacemente. Non ci sono solo i criminali libici ma anche quelli tunisini, algerini, egiziani, somali, turchi, afghani. Stiamo parlando di un’economia che vale milioni di dollari: abbiamo stimato che il Mediterraneo nel complesso ne vale tra i 300 e i 600 milioni ogni anno. Queste organizzazioni proliferano grazie alla fragilità delle stesse istituzioni europee perché le cause sono strutturali non emergenziali”.
Cosa intende?
“Sono stati gli stessi trafficanti a dirci: “Le leggi italiane sono le mie opportunità” oppure “chiudete pure le frontiere così io guadagno di più”. Mentre noi siamo con gli occhi fissi alla Libia, migliaia di migranti arrivano dalla rotta balcanica, di cui si parla molto poco, altri arrivano direttamente con gli aeroplani”.
“L’Europa deve prima di tutto armonizzare la sua legislazione penale. Non esiste che il traffico di esseri umani sia considerato un reato grave in un Paese europeo e un reato lieve in un altro. Oggi noi abbiamo una direttiva europea sul trafficking (la tratta a scopo di sfruttamento), ma non sullo smuggling (favoreggiamento dell’immigrazione irregolare) e questo rende difficile la cooperazione in materia giudiziaria e di polizia. Quando si dice che abbiamo arrestato mille scafisti è come dire “abbiamo arrestato mille pusher di cocaina”; nessun politico si vanterebbe di questo perché arrestare lo spacciatore non interrompe il traffico di stupefacenti.”
Una rete in cui non mancano complicità di uomini delle istituzioni?
“La corruzione negli stati di origine, di transito e, a volte, anche di arrivo è essenziale per questo tipo di attività criminali. In Turchia un trafficante ci diceva che in alcune zone dell’Anatolia un agente di frontiera può guadagnare anche 40-50 mila dollari in una stagione. Per questo è necessario lavorare per trovare una collaborazione con le autorità locali e questo deve essere fatto dall’Ue e non dai singoli Paesi europei. Bisogna poi lavorare per formare corpi di polizia specializzati. In Italia le indagini sui trafficanti sono in mano alle direzioni distrettuali antimafia che sono senza dubbio le più adatte per questo tipo di investigazioni, ma in altri Paesi europei non è così e questo ha delle conseguenze”.
Quali altre criticità evidenzia?
“Pensiamo alle norme sulle richieste d’asilo. Perché il trafficante vende il suo servizio soprattutto a somali, eritrei, siriani? Perché queste persone hanno diritto di chiedere asilo in Europa ma non hanno modi legittimi per arrivare ai confini dell’UE”.
Crede sia utile il sistema delle quote?
“Con l’approvazione delle quote avrebbe senso la creazione di luoghi per l’istruzione delle domande d’asilo fuori dai confini dell’Unione europea. Questo non impedirebbe il lavoro dei trafficanti, ma certamente lo limiterebbe”.
Pensa che in Europa stia maturando la consapevolezza di dover affrontare la questione in maniera più strutturale?
“Credo di sì, ma purtroppo spesso vediamo come le campagne elettorali siano giocate su una visione distorta del tema. Purtroppo c’è la consapevolezza di dover intervenire, ma anche la paura di perdere voti. A chi è cinico e dimostra di non aver interesse della sorte di migliaia di esseri umani che continuano a morire, dico di pensare ai milioni di euro che finiscono nelle mani di queste organizzazioni e che, spesso, vengono utilizzati per altre attività illecite come i traffici di droga, armi e terrorismo. Cose con cui finiremo comunque per dover fare i conti”.