Quelli di Garissa sono i nostri morti. Quelli di Garissa sono morti nostri. Dovremmo continuare a ripetercelo ad una settimana dalla strage che è costata la vita a 147 studenti uccisi, nel nord del Kenya, all’interno del grande campus universitario dove studiavano.
Non solo perché dovremmo sentire ogni morto e, in particolare ogni vittima del terrorismo, come nostra, indipendentemente se si trovi a Parigi o a Baga, a Mosul o a Tunisi, ma perché quei giovani sono stati colpiti dai miliziani somali di Al-Shabaab come ritorsione nei confronti delle forze impegnate nel difficile compito di stabilizzare la Somalia. Un processo lento, pieno di incognite, ma che ha fatto registrare segnali positivi negli ultimi anni anche grazie al contributo dell’Europa.
Il 16 settembre 2013 a Bruxelles si era tenuta una grande conferenza internazionale in cui era stato lanciato un “New Deal” per la rinascita della Somalia.
Poche settimana fa il Consiglio dell’Unione europea ha prorogato fino al 31 dicembre 2016 il mandato della missione EUTM impegnata nell’addestramento dell’esercito somalo.
E poi c’è l’EU NAV FOR, l’operazione marittima europea impegnata nel pattugliamento delle coste somale e del Golfo di Aden in funziona anti-pirateria.
Ma, bisogna dirlo chiaramente, il prezzo più alto nella lotta ad Al-Shabaab lo stanno pagando gli stessi stati africani che, da anni, combattono sotto il mandato di Amisom, la missione dell’Unione africana attiva in Somalia dal 2007. Sono operativi circa 21 mia soldati e 500 poliziotti provenienti da Uganda, Burundi, Gibuti, Kenya e Etiopia. I soldati della Sierra Leone hanno lasciato la missione nei mesi scorsi mentre sono presenti poliziotti da Nigeria e Ghana.
Senza contare il costo pagato dai civili e da quanti sono impegnati nell’amministrazione: circa dieci giorni fa è stato ucciso in un attentato a Mogadiscio, Yusuf Mohamed Ismail “Bari Bari”, rappresentante del governo somalo all’Ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra.
Sono dunque gli stessi africani a giocare la parte più pensante nella lotta al gruppo terrorista di Al-Shabaab. Una battaglia che, così come avviene per ISIS o Boko Haram, deve essere anche nostra. Perché non possiamo invocare la partecipazione degli “altri” alla lotta al terrorismo internazionale per poi voltarci dall’altra parte di fronte al sangue innocente. Impegnare soldi e risorse è importante, ma non basta.
I legami tra la Somalia e l’Europa (Italia in primis) sono legami antichi. Non possiamo far finta che il colonialismo non ci sia stato, che non vi siano stati legami con il regime di Siad Barre e che, traffici non proprio trasparenti (è un chiaro eufemismo), siano avvenuti in quel lembo di terra. Come dimenticare chi come Ilaria Alpi è stata uccisa, insieme al suo operatore Miran Hrovatin, per non aver voluto guardare dall’altra parte.
Ecco perché ci deve importare di quei giovani morti e ancora di più di quanti sono sopravvissuti e chiedono solo di poter studiare e vivere, senza paura.