Lotta al terrorismo: le contraddizioni della guerra francese in Africa

 

Soldati francesi impegnati nel Sahel

Soldati francesi impegnati nel Sahel

Forse non tutti lo sanno, ma la più grande operazione militare dell’esercito francese – attualmente in corso –  ha come teatro la regione africana del Sahel e come obiettivo il contrasto al terrorismo. Si tratta dell’Operazione Barkhane che vede impegnati 3 mila soldati francesi dispiegati su un territorio esteso per migliaia di chilometri quadrati: dalla Mauritania al Ciad, passando per Mali, Burkina Faso e Niger.

La missione, lanciata ufficialmente il 1° agosto del 2014, ha raccolto l’eredità di due precedenti operazioni condotte dalla Francia in Mali e in Ciad, denominate rispettivamente Operation Serval e Épervier.

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L’operazione Serval è stata lanciata esattamente due anni fa, l’11 gennaio 2013;  meno di un anno dopo, il 5 dicembre 2013, la Francia è intervenuta militarmente anche in Repubblica Centrafricana, in preda alla guerra civile, con l’Operazione Sangaris che vede attualmente dispiegati duemila soldati transalpini.

Obiettivo dichiarato di Barkhane è la lotta al terrorismo ed, in particolare, il contrasto a quella fitta rete di gruppi che si muovono con una certa facilità in una regione dai confini porosi e difficilmente controllabili.

Una guerra non priva di costi materiali ed umani: sono dieci i soldati francesi uccisi dall’inizio dell’operazione Serval (mentre non si hanno numeri precisi circa le vittime tra i miliziani e la popolazione civile).

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Con questa operazione la Francia prova a mantenere (e con un occhio alla Nigeria anche ad estendere) la sua area di influenza in una regione considerata strategica per la politica transalpina.

Un interesse di natura geopolitica: questa resta l’ultima regione al mondo in cui la Francia può ancora vantare la propria “grandeur” sfruttando la propria influenza politica, economica e militare.

Un interesse di sicurezza: la Francia ha particolare interesse nel contrastare la diffusione nella regione di ideologie legate al terrorismo internazionale. Il rischio di contagio alla vicina Algeria (e all’intero Maghreb) è da sempre una minaccia che le forze di sicurezza francesi cercano di evitare (ad ogni costo e con ogni mezzo).

Un interesse economico: la Francia non è solo un partner economico importante per i Paesi della regione, ma dal Sahel provengono materie prime fondamentali per l’industria transalpina: basti pensare alle miniere d’uranio gestite – direttamente o in partnership con società locali – dalla compagnia Areva in Niger.

Francia_Mirage_2000_JetR400E’ di fronte a queste preoccupazioni, che potrebbero essere condivise da molti stati dell’Unione europea, che viene da chiedersi dove fossero analisti e studiosi quando si progettava l’imposizione della No Fly Zone sulla Libia; di fatto il preludio alla definitiva caduta del regime di Gheddafi.

Perché – a quasi quattro anni di distanza – non si può nascondere come il collasso della Libia abbia rappresentato un elemento detonatore per altre crisi nel continente e per il proliferare di quegli stessi gruppi che oggi, la stessa Francia, si ritrova a combattere. Verrebbe da dire che l’esercito francese si trova a fronteggiare quello stesso demone che ha contribuito a rafforzare.

Tonnellate di munizioni e armamenti provenienti dagli arsenali libici sono, infatti, finiti in questi anni – grazie alla complicità di intermediari e reti internazionali – nelle mani di decine di gruppi in Africa e Medio Oriente. Armi risultate fondamentale durante le prime fasi della guerra in Mali, ma che continuano a fluire. Come si intuisce da questo recente episodio ricordato dal giornalista Andrea De Georgio.

Il 10 ottobre  nel nord del Niger le forze speciali francesi hanno reperito e distrutto un convoglio che trasportava dal sud della Libia verso il Mali tre tonnellate di armi pesanti (fra cui sistemi antiaerei SA-7, cannoni da 23mm, centinaia di mortai anticarro, mitragliatrici e migliaia di munizioni calibro da 7.62 a 23mm, secondo una fonte militare). Dopo questa operazione, una nuova base francese è stata aperta a Madama, nord-est del Niger, per controllare i traffici nella zona desertica a cavallo fra Libia, Niger e Mali.

E per un carico bloccato non sappiamo quanti sono, invece, riusciti a passare; è dei giorni scorsi la notizia dell’ennesimo sequestro lungo la frontiera tra Libia e Algeria. Armi che – attraverso Ciad e Niger – potrebbero essere finite anche nelle mani dei miliziani di Boko Haram. 

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Il Califfato istituito nello stato nigeriano di Borno sta allargando i suoi tentacoli al vicino Camerun e minaccia tutti gli stati che si affacciano sul lago Ciad. Il rischio è che, come avvenuto per lo Stato Islamico, anche questo possa diventare un polo di attrazione  o di arruolamento forzoso per migliaia di giovani a cui non verrà data in mano una penna (o una matita) ma un kalashnikov.

PaulBiyaPochi giorni fa il presidente camerunese Paul Byia ha invocato la necessità di un intervento internazionale, richiamando all’azione quella coalizione che aveva fatto – non a caso – di Parigi il suo centro. Era il 18 maggio 2014. Dichiarazioni d’intenti a cui, forse in attesa dell’esito delle elezioni nigeriane del prossimo 15 febbraio, la comunità internazionale non ha fatto seguire fatti concreti.

Resta da capire  se l’intervento militare resti l’unica strada per il contrasto del terrorismo o se, l’azione militare, seppur necessaria, non vada accompagnata da un’azione che faccia terra bruciata attorno a questi gruppi, a partire dal rifornimento di armi.

Lavorando, prima di tutto, per evitare la pericolosa saldatura tra movimenti con rivendicazioni territoriali e gruppi legati alla rete del jihadismo internazionale (come avvenuto in Mali). E, in secondo luogo, eliminando quel retroterra di frustrazione, povertà e mancanza di opportunità che – in tutta la regione del Sahel – spinge i giovani nelle mani di chi, per qualche dollaro, è pronto ad armarli.

 

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