Gli “Ebola fighters” sono secondo la rivista Time le persone dell’anno 2014. Un riconoscimento – certamente tardivo e non univoco – degli sforzi messi in atto fin dall’origine dell’epidemia da parte del personale sanitario locale ed internazionale. A pagare il prezzo più caro sono, soprattutto, i medici e gli infermieri africani: ne sono già deceduti 329 dall’inizio dell’epidemia, ma nonostante questo continuano il loro lavoro, spesso malpagato e senza le attrezzature necessarie.
Vi proponiamo la riflessione del dottor Italo Nessi di CUAMM – Medici con l’Africa.
Spesso da Occidentali tendiamo a evidenziare il lavoro degli operatori espatriati e non consideriamo la professionalità e le energie spese dagli operatori locali. Nei paesi poveri lavorano infermieri e medici che dedicano la loro vita ai pazienti. E sono tanti, troppo spesso dimenticati. Ma i mezzi di informazione parlano quasi esclusivamente degli occidentali, raramente degli africani.
Il Dr. Matthew Lukwiya, medico ugandese, moriva di Ebola nel dicembre 2000 durante un’epidemia che aveva interessato l’ospedale St. Mary di Lacor a Gulu. Era il Direttore Sanitario dell’ospedale e si era dedicato giorno e notte ai pazienti e agli infermieri. La settimana prima di contrarre l’infezione, a chi gli chiedeva perché non lasciasse l’ospedale rispondeva:
“Possiamo essere stanchi, avviliti per la morte di persone a noi care, possiamo avere paura perché siamo esseri umani e possiamo considerare la possibilità di andarcene, nessuno ci può trattenere contro la nostra volontà. Allora riposerebbe il nostro corpo, ma mai il nostro spirito. Sapremmo che eravamo in grado di offrire un aiuto a chi era disperato ma non l’abbiamo fatto. Se io in questo momento lasciassi non potrei più tornare ad esercitare la professione medica per il resto della mia vita. Non avrebbe più senso per me”.
I nostri colleghi di Medici con l’Africa attualmente presenti in Sierra Leone scrivono: “L’infezione ha trovato una breccia tra le ferite di un Paese sovrastato da problemi profondi, con un sistema sanitario fragile e impreparato. Sono donne e uomini forti e motivati quelli che stanno portando avanti la quotidiana battaglia contro il virus, ma ogni giorno si confrontano con enormi difficoltà tecniche, specialmente nelle aree più remote. Sembra una lotta impari, quella tra la rapidità di diffusione del virus e la lentezza a cui si è costretti anche per fornire servizi sanitari di base. E il grande rischio è che l’apparente insormontabilità degli ostacoli porti rassegnazione, ovvero un’altra porta aperta per Ebola. Il lavoro è molto e faticoso: pazienti affetti da Ebola da assistere in modo professionale e umano, personale sanitario da affiancare nelle sfide quotidiane, comunità impaurite da incoraggiare. Una speranza da costruire passo dopo passo, sfida dopo sfida, con loro”.
Questi medici non sono degli “eroi”, come oggi si tende superficialmente ad etichettare chiunque si dedichi agli altri, ma persone che credono in valori ed ideali e che hanno saputo portare le proprie scelte sino in fondo, consci dei rischi che vivevano.
Negli ultimi mesi molto è stato detto e scritto riguardo l’Ebola. C’è chi ha alimentato un allarmismo che gioca su elementi ancestrali nella psicologia umana – il timore dell’ “untore”, – che induce a guardare in ogni africano che giunge nel nostro Paese una potenziale fonte di contagio.
A nostro parere l’epidemia di Ebola dovrebbe indurre altre riflessioni.
In primo luogo, bisogna constatare con grande amarezza che i sistemi sanitari dei Paesi africani si trovano ancora oggi in uno stato di grave arretratezza. Dopo i primi focolai epidemici degli scorsi anni (Ebola è nota dal 1976) che avrebbero dovuto mettere in allarme, la mancanza di fondi e lo scarso interesse delle case farmaceutiche hanno finora rappresentato un ostacolo allo sviluppo di terapie contro questa malattia. Per combattere l’epidemia saranno sicuramente utili in un futuro farmaci e vaccini, ma quello di cui c’è maggiore bisogno ora sono risorse umane e tecnologiche per contenerla.
Al momento il rischio di contagio al di fuori delle nazioni colpite è alquanto improbabile: per potere avvenire significa entrare in contatto direttamente con il sangue o le secrezioni di un paziente infetto. Data la gravità dei sintomi, l’ipotetico rischio di contagio non deriverebbe certo dagli immigrati che giungono via mare in tempi superiori a quelli di incubazione (21 giorni), ma piuttosto per via aerea.
La Banca Mondiale ha valutato un impatto sull’ economia della Guinea, Sierra Leone e Liberia di caduta del Pil di 359 milioni di dollari: nel 2015 la perdita economica della Liberia equivarrebbe al 12% del Pil, rispetto a quello del 2013. Se confrontiamo i sistemi sanitari dei Paesi colpiti riscontriamo, per esempio, che in Italia i medici sono 400 per ogni 100mila abitanti, in Usa 245, in Guinea poco più di 2, in Sierra Leone 2 e in Liberia 1.
Per sconfiggere Ebola c’è bisogno di ridurre la povertà, di investire in educazione e formazione: sfide che ancora una volta parlano di giustizia e di pace.
L’Unione Europea è il maggiore donatore al mondo, superando gli stessi Stati Uniti, ma gli interventi per la sanità sono il fanalino di coda (qui il link all’impegno Ue per l’emergenza ebola). Mettere la sanità al centro dell’agenda europea dello sviluppo diventa quindi un’urgenza. Bisognerebbe avere il coraggio di assumere una decisone politica: nei prossimi anni almeno il 20% degli aiuti allo sviluppo della UE dovrebbe essere dedicato alla sanità in Africa.
L’Africa è alle nostre porte e non può non essere una priorità per l’Europa. Il problema dell’ immigrazione di massa lo dimostra ogni giorno. Non è più solo un problema di solidarietà umanitaria e/o di cooperazione allo sviluppo, la posta in gioco è anche un’ altra: si chiama sicurezza nazionale per l’Italia e per tutti gli altri paesi europei.
Paradossalmente quanto è dovuto per giustizia sociale potrà essere reso per convenienza propria.