Processo di Khartoum: dopo Roma diamo al dialogo una possibilità, ma sia una sola

Migrants crossing the Tenere desert

Per controllare i flussi migratori che dalle aree di crisi si riversano sull’Europa “non si può solo alzare un muro, né bastano solo le azioni di cooperazione: serve una strategia di lungo termine” che mescoli la cooperazione con i Paesi in difficoltà alla ricostruzione di Paesi “vicini al collasso totale”. Sono queste le parole con cui il neo Ministro degli esteri italiano, Paolo Gentiloni, ha salutato il lancio del Processo di Khartoum sull’immigrazione dall’Africa orientale (l’EU-Horn of Africa Migration Route Initiative), al termine della conferenza interministeriale che si è tenuta a Roma lo scorso 28 novembre.

Fotone2811 (1)In quell’occasione è stata diffusa una dichiarazione congiunta firmata dai 37 ministri partecipanti in rappresentanza dei 28 Paesi dell’Unione europea più Egitto, Eritrea, Etiopia, Gibuti, Kenya, Somalia, Sudan, Sud Sudan e Tunisia. Assente di peso la Libia in preda alla guerra civile.

Un’iniziativa analoga si era tenuta, sempre a Roma, il giorno precedente, il 27 novembre, con la conferenza interministeriale del Processo di Rabat (qui la dichiarazione conclusiva) che coinvolge gli stati dell’Africa occidentale.

Poco si è detto e si è scritto sui giornali italiani di questa iniziativa che ha rappresentato un passo importante nella strategia portata avanti da tempo dal viceministro Lapo Pistelli che, alla fine di luglio, aveva condotto un tour istituzionale proprio nel Corno d’Africa.

Molte sono state le voci critiche nei confronti dell’iniziativa, in particolare riguardo alla possibilità (contemplata nella dichiarazione conclusiva) e ribadita dal ministro Alfano di aprire capi profughi nel continente in collaborazione con i Paesi africani (vi segnaliamo in particolare i pezzi di Stefano Alberti e Massimo Alberizzi).

Critiche che condividiamo, pur continuiamo a credere che una chance al Processo di Khartoum debba essere data.

Perché non si può negare come vi sia del positivo nel mettere – una volta tanto – i governi delle due sponde del Mediterraneo attorno ad un tavolo. Anche se, a quello stesso tavolo, vi fossero (come effettivamente ci sono) regimi che violano i diritti umani: dialogare non significa necessariamente giustificare.

EU-Africa SummitPer anni si è chiesto all’Unione europea di coinvolgere i Paesi africani nella gestione dei flussi migratori. Una posizione ribadita anche all’Eu-Africa summit di Bruxelles dell’aprile scorso. Allora ben venga ogni possibile occasione di dialogo, ma che sia un dialogo sincero, franco, senza ipocrisie.

Per questo il credito nei confronti del processo di Khartoum non può essere incondizionato.

Come dialogare con regimi che hanno dimostrato di non rispettare i diritti umani: pensiamo all’Eritrea (su cui stanno indagando le stesse Nazioni Unite), ma anche al Sudan del presidente al-Bashir responsabile di crimini efferati in Darfur e nei Monti Nuba, o alla nuova leadership sud sudanese, tutt’altro che democratica.

Il viceministro Pistelli ad Asmara (fonte esteri.it)

Il viceministro Pistelli ad Asmara (fonte esteri.it)

In questo senso la linea di Pistelli è da tempo chiara. In un’intervista di alcuni mesi, riferendosi all’Eritrea, spiegava: “Un regime molto chiuso non cambierà se tu ti limiti semplicemente a isolarlo. Questo succede già da 20 anni. Quindi, ripeto, la politica ha il dovere non di andare a bussare in ginocchio alla porta di nessuno, ma di andare a parlare e argomentare la propria posizione e cercare di cambiare quella altrui”.

Ma come si può pretendere di gestire i flussi migratori insieme a quei governi da cui i migranti scappano?

E’ un po’ come voler discutere con il carceriere su come proteggere i detenuti in fuga. Senza dimenticare il precedente libico e le centinaia di storie di migranti intrappolati, rapiti e rivenduti, con la complicità delle forze di sicurezza dell’allora regime di Gheddafi e ora di milizie e gruppi tribali. Tutto sotto gli occhi di un’Europa che finge di non vedere.

Nella dichiarazione conclusiva dell’incontro di Roma si fa riferimento alla necessità che questi centri siano conformi al “diritto internazionale”. Cosa significa? Nel testo si fa riferimento anche alla Convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti del rifugiato che, però, Paesi come Eritrea e Libia non hanno mai ratificato.

Chi vigilerà per evitare che questi centri diventino il paravento dietro cui nascondere azioni che l’Europa non permetterebbe sul proprio territorio?

Interrogativi pesanti a cui la diplomazia europea dovrà dare una risposta più chiara del politichese delle dichiarazioni congiunte. Se così non sarà a crollare non sarà solo la fragile impalcatura del Processo di Khartoum, ma anche quel briciolo di credibilità che l’Europa ancora vanta sul piano internazionale e agli occhi dei propri cittadini.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.