Cresce la rete di africaeuropa. A pochi giorni dal voto in Mozambico vi proponiamo una riflessione del giornalista Davide Maggiore che ha visitato il Paese in occasione di quest’ultima tornata elettorale.
Da Paese devastato dalla guerra civile a esempio – nel bene e nel male – del cosiddetto boom economico africano, in poco più di vent’anni. Il percorso del Mozambico merita di essere osservato da vicino, perché mostra quella che è la trasformazione, più o meno recente, dell’Africa ma anche i suoi legami con l’Europa, i lati positivi e le pagine da ripensare di questo rapporto.
Il settore minerario (oro, alluminio, carbone) e quello degli idrocarburi (petrolio e gas naturale) hanno avuto un ruolo fondamentale nella crescita mozambicana (che il Fondo Monetario stima dell’8% a medio termine) ma ne mostrano anche le contraddizioni.
Le grandi compagnie minerarie e del settore petrolifero – nomi come Rio Tinto, Vale, Anadarko, Jindal, Eni – hanno impegnato molte risorse nel Paese: gli investimenti stranieri diretti – FDI – nel 2011 sono stati pari a quasi 2,1 miliardi di dollari, secondo un rapporto di KPMG International. Allo stesso tempo, tuttavia, sono in molti a chiedersi se questi flussi di denaro abbiano realmente contribuito allo sviluppo – e non solo alla crescita in termini assoluti – del Paese.
I contratti di sfruttamento minerario comprendono spesso delle clausole per cui le compagnie si impegnano a costruire infrastrutture – strade, ferrovie – o a fornire servizi, come le scuole, sui territori di cui hanno le concessioni.
Tuttavia spesso le conseguenze negative dello sfruttamento intensivo delle risorse del sottosuolo (e della terra stessa: dei 36 milioni di ettari totali, solo 3,9 sono ufficialmente definiti ‘coltivati’) superano i benefici. Basti pensare alle famiglie costrette ad abbandonare, nella provincia di Tete, i loro villaggi, che si trovavano nell’area ricca di carbone sfruttata da Rio Tinto e Vale. Dallo spostamento non è venuto loro nessun beneficio, anzi i nuovi insediamenti pensati per loro si trovano in posizione più svantaggiosa di quelli originali.
In questo caso i progetti minerari non hanno contribuito a ridurre la disuguaglianza tra l’élite mozambicana e i più poveri e, anzi, l’hanno accentuata. Con il paradosso che – per motivi come il calo dei prezzi del carbone e il costo troppo elevato per realizzare infrastrutture di trasporto – le compagnie si sono trovate ad affrontare perdite importanti.
Rio Tinto ha addirittura venduto le sue miniere nell’area per appena 50 milioni di dollari, tre anni dopo averle acquistate per 3,7 miliardi. Tuttavia, il boom delle materie prime nel Paese è tutt’altro che finito: nelle scorse settimane il governo ha annunciato una nuova asta per concessioni petrolifere nel bacino di Rovuma. In più, la nuova legge sulle risorse naturali potrà far aumentare di 30 miliardi di dollari gli introiti delle tasse su questo settore.
E l’Europa, in questo quadro, che ruolo gioca? Duplice perché è allo stesso tempo la fonte di due terzi degli aiuti allo sviluppo e la “casa madre” di alcune delle compagnie più interessate dal boom delle risorse mozambicano, come l’italiana Eni e, in parte, Rio Tinto (anglo-australiana).
Dall’Europa è passata, oltre vent’anni fa, la pace politica del Mozambico, con gli accordi di Roma del 1992. Ora bisognerà vedere se la stessa strada potrà essere percorsa per arrivare alla ‘pace’ economica, cioè a uno sviluppo, se non uguale per tutti, almeno veramente diffuso.
da Maputo – Davide Maggiore