Dall’epidemia di Ebola tre lezioni all’Europa sull’Africa

Morocco Ebola TravelNon sono bastate le recenti rassicurazioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) sull’improbabile diffusione dell’epidemia di ebola in Occidente: da settimane in Europa e negli Stati Uniti stiamo assistendo ad una crescente preoccupazione per una prossima estensione del contagio.

Un’attenzione, che se non scadrà nell’allarmismo, sarà certamente utile a tenere alta la guardia e a potenziare gli sforzi per il contenimento e il contrasto alla malattia, ma che porta alla luce alcune lacune profonde e i soliti pregiudizi con cui, da questo lato del Mediterraneo, si guarda al continente africano.

DistanzePer prima cosa stiamo assistendo alla solita generalizzazione di chi considera l’Africa come un unico, piccolo grande Paese. Per nove italiani su dieci l’epidemia di ebola – diciamolo con chiarezza: una delle più estese e pericolose crisi sanitarie degli ultimi decenni – sta avvenendo in un luogo imprecisato del mondo di cui si fatica a comprenderne i confini.

Pochi giorni fa l’autorità per il turismo dello Zimbabwe ha dichiarato come, a causa della minaccia dell’ebola, il Paese dell’Africa australe, rischia di subire danni al proprio settore turistico per milioni di dollari. E poco importa che lo Zimbabwe disti quasi 6 mila chilometri in linea d’aria dall’epicentro della crisi; per capirci è più vicina Bruxelles che ne dista poco più di cinque mila dalla capitale della Liberia Freetown.

Questo perché pochi in Europa saprebbero trovare sulla cartina Guinea, Sierra Leone e Liberia, i Paesi epicentro dell’epidemia. Secondo il pensiero comune ovunque viva un “nero” cova minacciosa l’insidia di Ebola. Una visione che denota una cronica (e non nuova) ignoranza, mista a un pizzico di razzismo, nei confronti degli africani (lezione 2).

Ebola-in-West-Africa---Ebola-outbreak-graphic-jpg

Si arriva allora a pensare, più o meno inconsciamente, che i migranti in arrivo attraverso il Mediterraneo o gli africani che vivono da anni accanto a noi, siano o possano essere veicoli del virus. Non notando come, ad oggi, il virus sia uscito dall’Africa sempre e solo per via aerea.

Di fronte a queste notizie la tentazione è allora quella di alzare ancora una volta i muri e le barriere, di chiudere le porte, di alzare steccati, sperando che questo basti.

Dobbiamo avere il coraggio di ammettere che dell’epidemia di ebola è iniziato ad importarci quando si sono registrate le prime morti di cittadini non africani, quando ha iniziato ad insinuarsi in noi il rischio che quel male oscuro potesse essere cosa nostra. Perché questo avvenisse ci sono voluti sei mesi, un tempo che si è tradotto in 4500 morti già accertati (di cui 4497 in Africa) e in un numero doppio di contagi.

Nonostante gli scioperi per gli scarsi equipaggiamenti e per i salari miseri che ricevono ogni mese, migliaia di medici e infermieri africani (con l’aiuto del personale internazionale) sono al lavoro per cercare di arginare l’epidemia e impedire che il virus continui a propagarsi.

Lottano e muoiono per vincere una battaglia che è anche nostra, per evitare che il virus possa arrivare anche qui.

Una battaglia per cui avrebbero bisogno del sostegno economico, sanitario e umano di cittadini e governi, invece degli inutili echi di una nuova caccia all’untore.

Perché la terza lezione che ci insegna l’epidemia è che l’unico modo di risolvere i problemi è avere il coraggio di affrontarne le cause alla radice e non limitarsi a contrastarne gli effetti.

Vale per ebola e non solo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.