Chissà se alle Nazioni Unite esiste un ufficio specializzato nella creazione degli acronimi per le missioni di pace dei Caschi Blu. Magari con un sezione speciale dedicata al Centrafrica dove, il 15 settembre scorso, è stata inaugurata l’ennesima operazione: la MINUSCA.
In principio era la MISAB nel 1997, seguita dalla MINURCA nel 1998 e poi da BONUCA (2000), FOMUC (2002), MICOPAX (2008), MISCA (2013) per arrivare all’attuale Multidimentional Integrated Stabilization Mission in Central African Republic; la MINUSCA appunto.
A queste bisogna aggiungere le missioni avviate da singoli Paesi, come l’Operazione Sangaris, lanciata dalla Francia nel dicembre 2013 e ancora attiva, o la missione EUFOR CAR, il cui via libera da parte dell’Unione europea risale all’aprile scorso.
Cambi di nomi e di sigle a cui non è corrisposto un miglioramento della situazione come sottolineano Martin Welz e Angela Meyer in un articolo pubblicato dalla rivista Foreign Affairs.
Basti pensare che nel marzo 2003, mentre erano dispiegati i circa 400 soldati della FOMUC con l’obiettivo di proteggere il governo, il presidente Ange-Félix Patassé veniva rimosso dal potere da un colpo di stato guidato da Francois Bosizé che, dieci anni dopo, nel marzo 2013, verrà a sua volta costretto alla fuga dal colpo di stato della coalizione Seleka.
Da allora la Repubblica Centrafricana vive la contrapposizione tra i miliziani ex Seleka (in prevalenza musulmani sostenuti anche da uomini provenienti da Ciad e Sudan) e le cosiddette milizie anti-balaka (a maggioranza cristiane).
Sarebbe, però, sbagliato ricondurre tutto a una questione religiosa. Qui, come nella maggioranza delle guerre africane, la religione è solo un elemento identitario e non la ragione prima degli scontri riconducibile ad una ben più concreta lotta per il controllo del potere e del territorio in particolare delle regioni ricche di oro, rame e diamanti. Non è un caso che gli ex Seleka abbiano installato una sorta di amministrazione parallela nelle aree sotto il loro controllo.
Nonostante un accordo di pace siglato il 23 luglio scorso tra il governo di transizione e i rappresentanti dei due gruppi le violenze proseguono rendendo difficile il rientro degli sfollati nelle proprie case: nella sola Bangui 67 mila persone vivono ancora nei campi profughi (dati IOM).
E’ questo il terreno in cui i dieci mila uomini della MINUSCA sono stati dispiegati con la previsione di arrivare a 12 mila unità entro febbraio 2015. Il costo previsto per i primi sei mesi è di 253 milioni di dollari, quasi un milione e mezzo di dollari al giorno.
Come ha notato nei giorni scorsi Louisa Waugh, in un articolo pubblicato dall’autorevole blog della Royal African Society, African Arguments, molti dei soldati impegnati sono, però, gli stessi della MISCA, la precedente missione dell’Unione africana. Una missione che non ha certo brillato per efficacia.
“Quasi tutte le truppe della MISCA – ha scritto – cambieranno semplicemente elmetto e saranno immediatamente assorbite dalla nuova missione”.
Un cambio che, secondo l’esperta, punterebbe a restituire credibilità a truppe accusate di vessazioni e abusi nei confronti dei civili: tra le accuse mosse alle truppe dell’Unione africana anche quelle di violenza sessuale ai danni di donne e ragazze. Accuse – purtroppo – non nuove quando si parla di missioni di peacekeeping in Africa.
Di fronte a questa situazione (e guardando ad altre crisi africane, quella dell’est congolese su tutte) appare chiaro come la soluzione della crisi non possa essere ridotta ad una mera questione di uomini e risorse. E’ necessaria una volontà politica – a livello locale, regionale e internazionale – che è fino ad ora mancata.
La stessa Unione europea che aveva presentato la missione EUFOR CAR con grande enfasi all’Eu-Africa summit di Bruxelles si è trovata a fare i conti con la scarsa volontà dei propri stati membri: fa effetto sapere come uno dei contingenti più consistenti provenga dalla Georgia, Paese non Ue, mentre potenze come Regno Unito e Germania (per non pestare i piedi alla Francia) siano rimaste alla larga. La Germania si è limitata al sostegno logistico alla missione mentre l’Italia ha dispiegato circa cinquanta genieri dell’8° reggimento della Folgore.
Perché quella centrafricana è stata e continua ad essere, per molti aspetti, una partita francese (ex potenza coloniale con un’interrotta presenza militare dall’indipendenza del 1960) per l’influenza in una regione chiave per la propria politica estera: un’area che sta conoscendo i crescenti appetiti da parte di nuove potenze (Cina in testa). Il tutto all’interno di una regione che sta conoscendo un periodo di grande instabilità con le crisi del Sud Sudan a est e di Mali e Nigeria a ovest; senza dimenticare la crescente penetrazione del radicalismo islamico.
Se mancherà la volontà politica e la capacità di mettere attorno al tavolo tutti gli attori coinvolti nella crisi, dodicimila uomini non basteranno a mantenere la pace in Repubblica Centrafricana o a costruirla perché, come ha recentemente ammesso Joseph Bindoumi, presidente della Central African League for Human Rights: “Ora nel nostro Paese, non abbiamo nessuna pace da mantenere”.
E al popolo del Centrafrica, allora, non resterà altro da fare che attendere il nome della prossima missione: sperando che sia, finalmente, di pace.