Il lancio di Frontex Plus è stato accolto con grande entusiasmo dal ministro degli interni italiano Angelino Alfano anche se i contorni della nuova missione europea appaiono ancora poco chiari.
E’ stata la stessa Cecilia Malmström, Commissario europeo agli Affari interni (uscente), a spiegare come il successo dell’operazione dipenderà dalla partecipazione (volontaria) dei singoli stati membri, non potendo contare su una “Guardia costiera europea con propri uomini e mezzi”.
Restano dunque forti dubbi su quale potrà essere la reale efficacia della nuova operazione accolta con freddezza dai Paesi del centro e nord Europa, Germania in testa. Segnali di apertura sono arrivati solo da Spagna e Francia.
“Dopo ciascuna tragedia avvenuta nel Mediterraneo – ha dichiarato Malmström, – ci sono state dichiarazioni da parte di tutti gli Stati membri per denunciare la perdita di vite umane. Questo è certamente importante, ma questa solidarietà ora deve essere trasformata in azioni concrete”.
Perché non si tratta soltanto di finanziare un’operazione che possa affiancarsi o sostituire “Mare Nostrum”, ma di rivedere l’intero sistema di gestione del diritto d’asilo. E’ questo il vero nodo su cui, all’interno dell’Ue, le posizioni sono ancora inconciliabili rendendo di fatto impensabile un reale cambiamento nei prossimi mesi, specie in tempi di rinnovo della Commissione europea.
Ma c’è un’altra anomalia, ben più profonda che sta emergendo con forza di fronte alle notizie di questi ultimi giorni. Ed è la miopia di un’Europa incapace di affrontare il tema delle migrazioni da una prospettiva più ampia, che guardi alle cause e non solo alle conseguenze.
Per farlo è necessario prima di tutto guardare a quanto avviene sulla sponda sud, dove preoccupa sempre più il degenerare della crisi libica. Una guerra alle porte dell’Europa, molto più vicina a noi di quanto potremmo immaginare: per un italiano, uno spagnolo o un greco, le coste del nord Africa sono più vicine di Bruxelles, Berlino o Londra.
Un grido d’allarme è stato lanciato nei giorni scorsi alle Nazioni Unite dall’ambasciatore libico al Palazzo di Vetro, Ibrahim Dabashi. Ci troviamo ad affrontare, ha spiegato, uno scenario che “potrebbe sfociare in una guerra civile in piena regola se non stiamo molto attenti e saggi nelle nostre azioni, e questo vale per tutti”.
Ma di fronte a tutto questo il Consiglio di sicurezza è stato, fino ad ora, incapace di intervenire (così come in Ucraina, Siria e Iraq), limitandosi, con la Risoluzione 2174 del 27 agosto, ad estendere l’embargo sulla vendita di armi.
Una paralisi delle organizzazioni multilaterali che coinvolge anche Unione africana e Lega Araba.
Da parte loro le potenze europee, dopo aver giocato un ruolo decisivo nel favorire la caduta di Gheddafi, si sono ritirate nel loro piccolo guscio, diventando spettatori della transizione. Come se quanto si verificava sul terreno non fosse conseguenze delle loro azioni.
L’Ue si è limitata ad approvare, il 22 maggio 2013, la missione Eubam Libya, con l’obiettivo di supportare le autorità libiche nel migliorare e sviluppare la sicurezza lungo i confini (gestione dei flussi migratori compresi). Una missione che presupponeva l’esistenza di un’autorità sovrana in Libia, che di fatto non c’è.
Come hanno dimostrato gli scontri di questi giorni.
Appare chiaro a tutti che, ad oggi, le sanzioni non siano sufficienti, ma allo stesso tempo sembra difficile ipotizzare un nuovo intervento militare, soprattutto senza l’avvallo dell’Onu. così come il rilancio di un processo credibile di transizione politica.
Quali Paesi europei sarebbero disposti a sopportarne i costi economici e politici di una missione di Peace Building? E quali potrebbero essere gli interlocutori locali?
Nell’attesa che l’Europa decida le proprie mosse, il conflitto tra fazioni e gruppi di potere, tra forze moderate e radicali, (qui trovate un approfondimento) infiamma le polveri di un nord Africa già di per sé irrequieto.
Egitto e Emirati Arabi Uniti sono già intervenuti militarmente bombardando alcune postazioni a Tripoli, mentre l’Algeria è sempre più preoccupata di una possibile avanzata della corrente islamista.
L’Europa è sicura di voler lasciare agli altri il pallino del gioco?
A rischio non ci sono solo le forniture di gas, i crediti delle imprese europee e la sorte di decine di migliaia di migranti in trappola tra il deserto e il mare. Uomini, donne e bambini per cui l’Europa – indipendentemente da Frontex – resta l’unica via di fuga.
Il rischio è di avere un buco nero alle porte di casa. Sulla sponda di quel mare che, per retorica, continuiamo a chiamare “nostrum”.