“Se la comunità internazionale non ha ancora fatto la propria parte in proposito (…), ciò non toglie che chi riveste ruoli di responsabilità abbia l’obbligo di chiedere: piuttosto che condannare i nostri giovani al gioco degli sfruttatori e dei trafficanti di essere umani, non è meglio individuare vie e strategie per uscire da questa assurda situazione di “non pace e di non guerra”?”.
Sono dure, come forse non lo erano mai state, le parole che i vescovi cattolici dell’Eritrea hanno affidato, il 25 maggio scorso, ad una lettera pastorale diffusa in occasione del 23° anniversario dell’indipendenza del Paese.
Nella mente dei vescovi la tragedia avvenuta, il 3 ottobre scorso, al largo delle coste di Lampedusa e costata la vita ad oltre trecento migranti, molti dei quali eritrei. Non a caso il titolo della Lettera pastorale “Dov’è tuo fratello?” riprende le parole di Papa Francesco durante la sua visita a Lampedusa l’8 luglio 2013.
Ma, di fronte a queste parole e a questi fatti, qual è stata la reazione dell’Europa?
Troppo timide, nei mesi scorsi, sono state le parole di condanna nei confronti del regime del presidente Isaias Afewerki, al potere dal 1993. Così come tiepide (se non del tutto assenti) sono state le dimostrazioni di solidarietà nei confronti dei sopravvissuti a quella e a molte altre tragedie del mare.
“Se la patria fosse uno spazio dove regna la pace e la libertà e dove non manca il lavoro – scrivono i Vescovi – non ci sarebbe nessun motivo per scegliere la via dell’esilio, della solitudine e delle difficoltà di ogni genere”.
Uomini e donne in fuga da un paese, dove la disgregazione familiare è causata “dal servizio militare senza limiti di tempo e senza retribuzione, della reclusione di molti giovani nelle prigioni e nei centri di rieducazione esponendo alla miseria non solo genitori anziani e senza supporto, ma intere famiglie”.
Un grido rimasto per lo più inascoltato. Fa eccezione la recente decisione del Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani di incaricare un’apposita commissione d’inchiesta sulle violazioni compiute in Eritrea.
Un intervento che sarà però inutile senza un adeguato sostegno politico.
Di segno apparentemente opposto è stata, invece, la visita del viceministro degli esteri italiano, Lapo Pistelli, ad Asmara, all’inizio di luglio. Da Pistelli sono arrivate parole di apertura nei confronti della leadership Eritrea.“E’ arrivato il momento di ricominciare”, ha detto il viceministro italiano, che ha aggiunto: “Sono venuto qui a testimoniare la volontà di rilanciare le relazioni bilaterali e provare a favorire un pieno reinserimento dell’Eritrea quale attore responsabile e fondamentale della comunità internazionale nelle dinamiche di stabilizzazione regionale”.
Nessuna parola è stata spesa in quell’occasione, almeno ufficialmente, per le violazioni dei diritti umani. “Un regime molto chiuso – si è difeso il viceministro – non cambierà se tu ti limiti semplicemente a isolarlo. Questo succede già da 20 anni. Quindi, ripeto, la politica ha il dovere non di andare a bussare in ginocchio alla porta di nessuno, ma di andare a parlare e argomentare la propria posizione e cercare di cambiare quella altrui”.
Solo il tempo dirà quale efficacia potrà avere questa nuova iniziativa diplomatica, ma il timore è che – i diritti umani – possano essere sacrificati sull’altare della stabilità regionale, in un Corno d’Africa quanto mai irrequieto, e degli interessi economici (l’Italia resta il secondo partner commerciale dell’Eritrea).

La baronessa Asthon alla guida dell’EEAS (European External Action Service) fino al prossimo novembre
Guardando all’iniziativa delle Nazioni Unite e a quella italiana verrebbe da pensare al vecchio gioco del bastone e della carota. Una strategia che potrà avere successo solo se avrà la forza della coerenza e, soprattutto, se sarà condivisa dall’intera Europa.
Magari ponendo la questione Eritrea in cima all’agenda del prossimo Alto Rappresentante dell’Unione per la Politica Estera, grazie alla spinta della presidenza italiana e del ministro Mogherini, in lizza per la guida dell’EEAS.
“Il vero nemico della pace è l’ ingiustizia; il rispetto delle persone, della loro dignità e dei loro diritti è la pietra angolare della pace”, ci ricordano i Vescovi cattolici eritrei.
All’Europa e al mondo il compito di non lasciare cadere inascoltato, ancora una volta, il loro grido.