“Il contratto è sospeso fino ad una prossima comunicazione”.
E’ questo il messaggio che hanno ricevuto diverse ONG internazionali e locali impegnate in Sud Sudan, in seguito allo scoppio della guerra civile (sul tema vi segnaliamo il reportage di Alfredo Macchi per TGCom).
La decisione dei donatori potrebbe sembrare l’ovvia conseguenza delle violenze in corso e della necessità di concentrare i fondi sull’emergenza (come dimostra un recente rapporto della Commissione europea). Ma a guardare la realtà da una prospettiva diversa, quella delle popolazioni locali, viene da chiedersi se questa sia una scelta lungimirante o miope?
Vi proponiamo la riflessione per africaeuropa di Enrica Valentini, direttore del Catholic Radio Network, rete delle emittenti radio cattoliche del Sud Sudan e dei monti Nuba, con sede a Juba.
Dall’inizio della crisi in Sud Sudan molti aiuti, finanziari e materiali, sono stati stanziati per sostenere la popolazione affetta dal conflitto. Alcuni fondi sono frutto di nuovi stanziamenti, altri sono stati deviati da altre iniziative.
Il risultato è che, nel giro di poche settimane, organizzazioni locali hanno dovuto adattare le loro attività e i loro programmi o crearne di nuovi per coprire le necessità della popolazione (cibo, acqua, assistenza sanitaria, etc). Un modo per far fronte all’emergenza da un lato e, dall’altro, per vedere riconfermati i fondi magari già approvati in precedenza.
Se molto è stato stanziato, altri fondi governativi, intergovernativi, privati, europei e non, sono però stati congelati per cause di forza magggiore. Temporaneamente.
L’instabilità nel Paese influisce sulla possibilità di svolgere regolari attività, quindi molti progetti sono stati sospesi. La domanda è “fino a quando?”.
Prendendo in considerazione il punto di vista dei donatori, i fondi per lo sviluppo sono investimenti, quindi non si può rischiare di finanziare qualcosa che può essere danneggiato, distrutto o non utilizzato, ma fino a quando si può rimandare lo sviluppo e per quanto tempo si può assistere la popolazione?
Certamente fornire generi di prima necessità alla popolazione in fuga da zone di conflitto è una priorità, ma così facendo il lavoro di molte altre organizzazioni è passato in secondo piano.
Pensiamo per esempio a tutte quelle organizzazioni che si occupano di “peace building” e “capacity building”. Costruire non è una priorità in caso di conflitto, è troppo rischioso, non è indispensabile, sia che si tratti di strutture o di capacità umane.
Se però guardiamo la cosa dalla prospettiva opposta, quella di chi vive nel paese, ci si rende conto per certe cose non si può aspettare.
Se si continua a distribuire cibo agli sfollati, ma non si insegna il rispetto per quello che fa la fila dietro di noi e che magari ha un’origine diversa dalla mia, il ciclo di violenza non si interromperà mai.
Se si sospendono i progetti di sviluppo, pensiamo in particolare a quelli in campo agricolo in zone non direttamente toccate dal conflitto (e sono molte in Sud Sudan), chi sarà in grado di produrre le risorse necessarie a sfamare i milioni di abitanti a rischio di insicurezza alimentare?
In un momento in cui mancano gli standard di sicurezza necessari per la presenza di operatori umanitari internazionali, come si può supportare la popolazione se non si investe nella formazione del personale locale?
Ovviamente è difficile dare risposta a queste domande anche perché si corre il rischio di semplificare una situazione che invece è molto complessa. Ad ogni modo può essere utile fermarsi e considerare la questione sotto diversi punti di vista. Anche quello delle comunità locali.