“Secondo alcuni studi demografici, entro il 2050, l’Africa avrà 2 miliardi di abitanti – l’Europa 500 milioni – e con la crescita della popolazione crescerà anche il bisogno di lavoro. Questa credo sia la sfida più grande che attende il continente, anche se spesso non viene menzionata tra le priorità”.
A tracciare per africaeuropa un bilancio del recente Eu-Africa Summit è Geert Laporte, vice direttore dell’ECDPM (European Centre for Development Policy Management), uno dei centri di ricerca più importanti a livello europeo sulle relazioni tra Africa ed Europa. Ci ha accolto nella sede dell’organizzazione a Bruxelles per una lunga chiacchierata sui temi al centro dei lavori (e non solo).
Al di là delle dichiarazioni conclusive cosa l’ha colpita di questo incontro?
“La prima cosa che mi ha colpito, specialmente nella conferenza stampa finale, è stato il tono morbido utilizzato dai leader africani e la maggior modestia vista nei leader europei. Ma è difficile capire ora quali siano stati i risultati di questo appuntamento perché ci sono state discussioni e incontri bilaterali di cui abbiamo conoscenza, ma di cui non vi è traccia nei documenti. Sarà importante capire cosa è stato detto sugli EPAs, sui diritti umani, sul tema dell’omosessualità o sul ruolo della società civile in Africa. Ad essere uscito forte dal Summit è, soprattutto, il richiamo ad una complementarietà tra i due continenti, una possibilità per andare oltre la visione del passato perché, come ha ricordato lo stesso Barroso, la relazione tra i due continenti non è solo qualcosa che attiene alla storia, ma ci sono “una nuova Africa e anche una nuova Europa”.
Uno degli obiettivi raggiunti al Summit è stato il via libera alla missione dell’Unione europea in Centrafrica, anche se con qualche ombra legata, soprattutto, al disimpegno di Germania e Regno Unito che hanno assicurato solo sostegno logistico…
“Partiamo da una constatazione: la presidente centrafricana Panza si è detta molto soddisfatta delle decisione europea. Credo che dietro alla pressione francese per il via libera alla missione ci sia un tentativo di non portare avanti azioni unilaterali, ma di cercare una responsabilità collettiva da condividere con l’Europa e con la stessa Unione africana. Anche nel caso del Mali, dopo un primo intervento unilaterale, la Francia ha cercato il sostegno internazionale. Questo può essere un primo passo verso una politica di sicurezza comune come mai abbiamo avuto nel passato”.
Ma la decisione di Germania e Regno Unito di non mandare truppe non rappresenta un elemento di fragilità nella polita estera europea in Africa?
“Certamente si. Molto dipenderà da chi effettivamente manderà le truppe e, soprattutto, da chi sarà effettivamente sul campo”.
Come valuta la copertura mediatica del Summit? La sensazione è quella di una scarsa attenzione, soprattutto in Europa…
“Per rispondere a questa domanda dobbiamo dare uno sguardo ai Summit precedenti: nel 2007 ci fu una grande attenzione per il Summit di Lisbona dovuta alla spinta del Portogallo, Paese ospitante, e dal lancio in quell’occasione della JEAS, la nuova strategia per la “partnership” tra Africa ed Europa. Del Summit del 2010 a Tripoli non vi è, invece, quasi nessuna traccia. Partendo da questi due estremi possiamo dire che a Bruxelles c’è stata una buona attenzione, soprattutto sulla stampa africana”.
Ad uno dei temi più attesi, quello degli EPAs (gli accordi di partenariato economico), è dedicato solo un vago riferimento nella dichiarazione conclusiva, segno di tensioni ancora presenti tra le parti: quali conseguenze per il proseguo della trattative?
“Senz’altro ci sono state discussioni a riguardo. Sul fronte africano c’era chi premeva perché il tema fosse discusso e chi, invece, preferiva evitare forzature. Proprio alla vigilia del Summit c’è stato un raffreddamento da parte degli stati del West Africa ormai prossimi alla firma (soprattutto per un irrigidimento della Nigeria). Ma, secondo i nostri esperti, nel caso dell’Africa occidentale, lo stallo è legato più a questioni tecniche e procedurali che non a questioni politiche”.
Pensa che la scadenza fissata dall’Unione europea per arrivare a siglare gli EPAs con le diverse unioni regionali africane entro il 1 ottobre 2014 sia credibile?
“È impossibile che la scadenza venga rispettata da tutte le unioni regionali. Questo perché, anche se si dovesse arrivare ad un accordo politico, sarebbero necessari tempi tecnici per la ratifica da parte dei parlamenti nazionali. Ottobre non è un data realistica”.
Crede sia solo una questione di tempo? E’ possibile un nuovo rinvio della scadenza Ue?
“L’Europa non può permettersi di rinviare ancora questa scadenza, perché ogni volta che rinvii una scadenza perdi credibilità e questo l’Unione europea lo ha già fatto troppo spesso in passato. Sono curioso di capire come si muoverà l’Europa: probabilmente giudicherà i progressi fatti nelle varie regioni valutando caso per caso sul da farsi. Credo comunque l’Europa cercherà di mantenere alta la pressione per evitare il rischi di lunghi rinvii”.
Perché crede che la vera sfida da vincere per le relazioni tra Africa ed Europa sia quella dell’occupazione?
“Noi sentiamo spesso parlare di pace, sicurezza, governance e diritti umani, tutte cose positive ma l’occupazione è la bomba che potrebbe creare i problemi maggiori nelle prossime generazioni. Come possiamo assicurare che ci sarà un lavoro per tutti. La presidente della Commissione dell’Unione africana, Dlamini Zuma, ha ricordato come ogni anno ci siano in Africa 10 milioni di nuove persone che entrano nel mercato del lavoro, ma in Africa ancora non c’è industrializzazione. L’intera economia africana si regge sul settore estrattivo che genera molti soldi, ma non molti posti di lavoro e dove i soldi tendono a sparire nelle tasche di pochi, spesso anche di multinazionali europee. Questa è la grande sfida: come il boom economico può creare lavoro e, sopratutto, uno sviluppo inclusivo, perché noi vediamo una crescita costante, ma anche l’aumento delle disuguaglianze”.