Mancano poche ore all’inizio dell’Eu-Africa Summit di Bruxelles e già si teme che le crisi aperte nei due continenti e le frizioni su alcuni temi caldi (EPAs e non solo) possano trasformare l’appuntamento nell’ennesima occasione mancata. Di questo e del futuro delle relazioni tra Africa ed Europa abbiamo parlato con Jean-Léonard Touadi, originario del Congo-Brazzaville, già deputato italiano, giornalista e docente di Geografia Economico Politica all’Università di Tor Vergata.
Professore, cosa dobbiamo aspettarci dall’incontro di Bruxelles?
“Considerando la crisi ucraina e le scadenze elettorali interne all’Unione europea, la possibilità che questo vertice possa non trovare la giusta copertura mediatica e politica esiste, anche perché si inserisce in una lunga fase di cecità europea nei confronti di quanto avviene nel continente africano. Non mi sorprenderei che un evento così vitale non solo per l’Africa, ma per la stessa Europa, possa finire rilegato in poche righe di cronaca. Questo sarebbe un peccato perché è la prima volta che un incontro di questo tipo avviene dopo l’emersione dell’Africa come possibile futuro protagonista dell’economia mondiale”.
Siamo a sette anni dal lancio della JAES (Joint Africa-Eu Strategy), la “partnership” che avrebbe dovuto rilanciare le relazioni tra i due continenti, ma l’Ue sembra incapace di costruire una relazione che vada oltre la visione dell’Africa come mera fornitrice di materie prime o come destinataria di aiuti. Come uscirne?
“Quella tra Africa ed Europa è una relazione asimmetrica in cui scontiamo le contraddizioni e le ambiguità che ci portiamo dietro fin dai tempi della “missione civilizzatrice”. In questa visione l’Africa è sempre stata vista come un’appendice politica europea. Per questo dobbiamo, insieme agli africani, darci un nuovo alfabeto, per superare le nostre pigrizie mentali ed arrivare ad una nuova visione post-coloniale”.
In queste difficile relazione quale peso hanno le divisioni interne alla stessa Unione europea?
“Per la logica di Berlino l’Ue è andata sempre in ordine sparso, anteponendo gli interessi dei singoli Paesi ad una visione d’insieme. Una debolezza che è comune all’intera politica estera europea. In Africa questa urgenza è più evidente per il protagonismo di concorrenti molto compatti come Cina e India”.
Quali sono, invece, i punti di forza dell’Europa?
“Quella che ho indicato come una debolezza – la lunga relazione asimmetrica tra i continenti – ha però anche elementi positivi: penso ad una storia consolidata di relazioni culturali e linguistiche e, soprattutto, alla prossimità geografica”.
Il mutato contesto mondiale a cui faceva riferimento – con l’affermarsi di nuovi attori – come ha influito sulle relazioni tra Africa ed Europa?
“L’Africa è oggi più consapevole della propria forza e gli interlocutori africani non tendono più la mano in cerca di aiuti come facevano in passato. Questo non è un fatto da poco perché, come diceva lo storico africano Joseph Ki-Zerbo: “La mano che riceve è sempre sotto la mano che dà”. Oggi c’è un’Africa che non chiede e continua a crescere (le stime del 2014 parlano in media di un più 5,3% del PIL), ma questa è una crescita che non crea occupazione e, cosa ancora più grave, dove non c’è una strategia continentale di lotta contro la povertà; così la forbice della disuguaglianza si allarga. Urge, in primis da parte degli africani, lavorare ad un modello di sviluppo inclusivo, che metta al centro il lavoro e garantisca la sostenibilità ambientale e antropologica. Su questo sono convinto l’Europa possa fare di più rispetto agli altri”.
In che modo?
“Insieme agli africani può diventare un laboratorio di sviluppo sostenibile. Una sfida in cui anche l’Italia ha un importante ruolo da giocare”.
Tra i nodi più delicati in agenda a Bruxelles c’è il tema degli EPAs, gli accordi di partenariato economico che dovrebbero sostituire il sistema legato agli accordi di Cotonou, portando alla progressiva e reciproca apertura dei mercati. Una liberalizzazione che, secondo i critici, rischierebbe di spegnere sul nascere l’industria di molti stati africani soffocata dalla concorrenza europea. Cosa ne pensa?
“Diffido da una totale e completa liberalizzazione che non abbia gradualità e clausole di salvaguardia. Dall’altra parte non credo però che l’Africa possa svilupparsi in modo autarchico, chiudendosi in se stessa. Penso esistano dei meccanismi che possano garantire l’apertura pur non uccidendo l’economie africane. Anche il contesto mondiale è cambiato e, nemmeno nei grandi organismi internazionali come Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale, si crede più in quella idea di turbo capitalismo che ha contraddistinto le politiche degli anni ’80 e ’90. Penso che i tempi siano maturi per fare degli accordi con quelle giuste clausole che sono, invece, mancate negli ultimi decenni”.
Altro tema per cui è atteso un pronunciamento comune è quello delle migrazioni. Lei ha recentemente affermato: “Dove non è arrivato il colonialismo stanno arrivando le tragedie del Mediterraneo”. Cosa intende?
“Mentre a Bruxelles si discute, non possiamo dimenticare il dramma di Lampedusa e questo cimitero a cielo aperto che è diventato il Mediterraneo. In Africa si sta diffondendo la sensazione dell’Europa come un fortezza chiusa e questa sensazione sta creando una specie di deriva dei continenti. L’Europa che è sempre stata vista dagli africani come un Eldorado sta perdendo questo ruolo e, anche per questo, gli africani hanno iniziato a diversificare le loro relazioni. Questo lo si nota, ad esempio, guardando le partenze degli studenti universitari africani che scelgono sempre più spesso destinazioni diverse dall’Europa puntando sul nord America e sui Paesi emergenti come Cina, India e Brasile”.
L’Europa cosa dovrebbe fare in questa situazione?
“Oggi non è più scontato che l’Africa cerchi l’Europa come partner privilegiato, ma rimango convinto che i Paesi africani debbano continuare ad avere un rapporto strutturato con l’Europa, ma su basi post-coloniali. Perché a differenza della Cina, l’Europa ha la possibilità di instaurare una relazione multi-settoriale, non solo economica, ma anche culturale promuovendo uno sviluppo integrale che tenga conto di diritti umani e pluralismo. Aspetti che la Cina non mette sul piatto. Ma per farlo è necessario lavorare, insieme africani ed europei, per scrivere le regole di una nuova relazione”.