Mettiamo le cose in chiaro fin dalla prima riga: per favore non chiamatela “emergenza”.
La primavera è appena arrivata è già in Italia si inizia a parlare di emergenza sbarchi. O, forse, sarebbe meglio chiamarla “emergenza soccorsi in mare” visto che – dal lancio dell’operazione Mare Nostrum – gli sbarchi sulle coste italiane sono quasi completamente cessati.
Quelle poche notizie che filtrano dai giornali parlano di strutture ormai al collasso (sopratutto in Sicilia), di commissioni per la valutazione delle domande d’asilo con ritardi di mesi e di persone – perché questo sono prima di tutto i migranti – costretti, in molti casi, a vivere in condizioni non dignitose. Una situazione che, nelle scorse ore, ha portato al trasferimento dei nuovi arrivati in diverse zone d’Italia.
Ma allargano lo sguardo scopriamo che situazioni analoghe si registrano in altre realtà, lungo quella linea immaginaria che segna il confine sud dell’Europa. A Ceuta e Melilla, enclave spagnole in terra d’Africa, dove solo un mese fa la Guardia Civil ha cercato di scongiurare il passaggio oltre la frontiera di alcune centinaia di migranti sparando, secondo quanto denunciato da alcune ONG locali, proiettili di gomma. Molti sono riusciti ugualmente a passare, altri sono stati respinti e altri ancora, almeno 7 persone, hanno trovato la morte in mare nel tentativo di superare, a nuoto, le barriere poste a protezione della spiaggia.
E come dimenticare le migliaia di migranti, soprattutto siriani, che affollano le rotte balcaniche.
Un pronunciamento comune sul tema delle migrazioni è attesto al prossimo Eu-Africa Summit di Bruxelles, ma la sensazione – soprattutto a causa di fratture interne ai Paesi Ue – è che non si riesca ad andare oltre prese di posizioni di facciata.
Qualcuno potrà giustificare la situazione attuale con l’aumento – oggettivo – degli arrivi: secondo quanto riportato dal rapporto 2013 dell’UNHRC, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, infatti, il numero di richiedenti asilo in Europa è aumentato del 30% rispetto al 2012. Un aumento imputabile soprattutto alla crisi siriana e agli oltre 2,5 milioni di profughi in fuga dalle violenze.
Ma è proprio a fronte di questi dati, conosciuti dai leader europei, che parlare di “emergenza” sembra oggi più un’aggravante che una giustificazione.
IL CASO SICILIANO
Nel novembre scorso, a circa un mese e mezzo dalla tragedia di Lampedusa, ero in Sicilia per cercare di raccontare la realtà delle strutture di accoglienza per migranti e richiedenti asilo. Quella che si è presentata davanti ai miei occhi è stata una jungla di realtà diverse dove si poteva trovare tutto e il suo contrario: centri qualificati e altri improvvisati, alberghi e tendostrutture (ora persino capannoni industriali), operatori formati e debuttanti (allo sbaraglio).
A giustificare tutto questo una vecchia normativa (la legge Puglia del 1995), che consente alle prefetture – in forza dell’ emergenza – di firmare convenzioni con strutture disposte ad accogliere i migranti, senza dover seguire l’iter tradizionale di accreditamento. Alimentando sempre più il business che ruota attorno all’accoglienza.
Indipendentemente da chi fossero gli interlocutori c’era una cosa che, allora, era chiara a tutti: con l’arrivo della primavera gli “sbarchi” sarebbero ripresi con forza. Una profezia che gli ultimi arrivi sembrano confermare.
Viene così da chiedersi: cosa è stato fatto in questi mesi per preparare l’accoglienza?
Perché non si è cercato di mantenere una continuità con l’esperienza maturata, in diverse zone d’Italia, durante la cosiddetta “emergenza Libia”, e si è deciso, invece, di avvisare le diverse prefetture italiane solo con poche ore d’anticipo, senza dare alle realtà del territorio la possibilità di organizzare un’accoglienza degna di questo nome?
Perché si continua ad operare come se questi arrivi – assolutamente prevedibili e previsti – siano un evento eccezionale?
Torna alla mente la favola della cicala e della formica. Invece di sfruttare i mesi invernali per preparare il terreno (e le strutture) agli arrivi primaverili la cicala Europa ha continuato a prendere tempo, rinviando a giugno la discussione del tema a livello di Consiglio Europeo, e continuando a vivere alla giornata, pronta a nascondere il problema sotto una coperta chiamata “emergenza”.
Così oggi – e lo sarà ancora di più tra alcuni mesi – ne vedremo le conseguenze. E, a pagare, ancora una volta e come sempre, saranno gli stessi migranti e le comunità locali vittime sacrificali della mala gestione altrui.