Questo è il video realizzato, nei mesi scorsi, per presentare la partnership tra Unione europea e Unione africana in vista del prossimo Eu-Africa Summit di aprile a Bruxelles.
Un video – certamente ben fatto – di fronte al quale viene, però, da chiedersi quanto queste immagini raccontino, realmente, quella che è oggi la relazione tra i due continenti? Una relazione certamente complessa dove non mancano esperienze di reale collaborazione e crescita comuni, ma dove – ancora troppe – sono le criticità e le zone d’ombra.
Che senso ha, ad esempio, presentare le relazioni tra Africa e Europa prescindendo (solo per stare alla stretta attualità) dal fenomeno migratorio e dalla morte di migliaia di persone alle porte dell’Europa? Dalla partecipazione di industrie europee al fenomeno del land grabbing o dal commercio di minerali provenienti da aree di conflitto.
Perché, in fondo, a più di cinquant’anni dalle indipendenze africane, guardando alle relazioni tra le istituzioni dei due continenti, viene da chiedersi se questa “partnership” non assomigli più alla relazione tra Davide e Golia che non ad un legame tra pari. Facciamo nostre le parole di Rob de Vos, già ambasciatore olandese in Sud Africa, contenute nel libro “The EU and Africa – from Eurafrique to Afro-Europa”:
“Il termine partnership è stato usato – ma più spesso abusato – in documenti ufficiali, discorsi, e altre forme di comunicazione per caratterizzare la relazione tra l’Unione Europea e l’Africa. In molti casi, questa partnership, è stata ineguale e rappresenta più uno stato di coesistenza che una relazione armonica e reciproca che coinvolga un mutuo dare e ricevere da entrambi i partners”
Alcune settimane fa al Palazzo di Vetro di New York si è tenuta la sessione di apertura del gruppo di lavoro incaricato di vigilare sui flussi finanziari illeciti. Proprio in quell’occasione la Commissione economica per l’Africa delle Nazioni Unite ha stimato in 50 miliardi di dollari all’anno le perdite subite dall’Africa a causa di questi flussi finanziari. Una cifra ben superiore a quella degli aiuti allo sviluppo o agli investimenti diretti esteri verso il continente africano.
Ieri erano i soldi del dittatore dello Zaire, Mobutu Sese Seko, a lasciare l’Africa per fluire verso le banche Svizzere. Oggi (solo per citarne alcuni) sono i soldi dei sussidi sul petrolio nigeriano, i proventi dei diamanti dello Zimbabwe o quelli derivanti dalla vendita del coltan della RD del Congo, ad arricchire i conti di finanziarie e società fantasma nei paradisi fiscali.
Per questo viene da chiedersi quale sia oggi il ruolo delle società finanziare svizzere o lussemburghesi (solo per restare all’Europa) nel favorire questo continuo saccheggio? Traffici in cui africani ed europei sanno – questa volta purtroppo – dare vita a partnership davvero efficaci.
La domanda di fondo, allora, resta sempre quella: come conciliare gli interessi legittimi delle industrie europee con i valori di democrazia, libertà e sviluppo, professati – spesso solo a parole – dai governi del continente?
In questo senso ci sembra che i negoziati in corso tra il governo del Niger e la compagnia francese Areva per lo sfruttamento delle miniere di uranio siano un caso quanto mai emblematico: qual è il punto di equilibrio tra l’interesse dei consumatori francesi e il diritto dei cittadini nigerini di poter contare sulle proprie risorse per garantire un futuro migliore ai propri figli? Un modello che potrebbe essere replicato in molte altre situazioni.
Così come viene da chiedere ai leader africani che hanno recentemente nominato il novantenne presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, primo vicepresidente del Consiglio esecutivo dell’Unione Africana: come certe scelte dei leader si conciliano con gli interessi dei propri cittadini?
E’ dalla risposta a queste domande che passa il futuro della tanto declamata “partnership”, tutto il resto sono solo orpelli, forse anche utili in alcuni casi, ma che nascondono una struttura destinata, alla lunga, a non stare in piedi.
Figuriamoci a camminare.